Storia della filosofia, trappola micidiale: Benjamin Fondane
Benjamin Fondane, «La coscienza infelice» (1936), da Aragno Il filosofo rumeno allievo di Šestov addita il nulla che si annida in ogni astrazione, anche nella verità, confrontandosi con l’hegelismo a Parigi negli anni trenta
Benjamin Fondane, «La coscienza infelice» (1936), da Aragno Il filosofo rumeno allievo di Šestov addita il nulla che si annida in ogni astrazione, anche nella verità, confrontandosi con l’hegelismo a Parigi negli anni trenta
Impavido decostruttore del logocentrismo, ante litteram, fu Benjamin Fondane, rumeno di nascita (1898), naturalizzato francese, ma in quanto ebreo deportato e ucciso ad Auschwitz nel 1944. Fondane a Parigi aveva incontrato Lev Šestov, il filosofo russo che contro il totalitarismo della ragione (logocentrismo, appunto) aveva fatto esplicita professione di irrazionalismo, rivendicando con Pascal il diritto della ragione di farsi beffe della ragione e di appellarsi a un principio di segno contrario, la fede. Secondo Šestov anche la verità dev’essere superata. Che cos’è infatti la verità? È un’evidenza prima, un’evidenza che non può essere negata. Ma che cos’è a sua volta questa evidenza prima che non può essere negata? Un principio di ragione, qual è ad esempio il principio di non contraddizione, e quindi un’astrazione, un teorema che pretende di spiegare la vita, ma che non spiega un bel niente, perché esso stesso non è niente, rispetto alla singolarità e all’unicità di ogni essere vivente. O si sta dalla parte della realtà vivente, o si sta dalla parte della verità e della ragione. Ma non si può stare dalla parte della verità e della ragione senza sacrificare il vivente in quanto tale. Giunto a Parigi, Fondane si mette alla scuola di Šestov e non esita a professarsi suo allievo. Ma al tempo stesso partecipa con la massima attenzione al movimento di idee che ha per epicentro Hegel. Decide così di dedicarsi allo studio di una figura fondamentale della Fenomenologia dello Spirito, per l’appunto la coscienza infelice. Ad essa dedica la sua opera maggiore, che esce nel 1936, avendo un buon riscontro, e viene ora pubblicata da Aragno: La coscienza infelice (traduzione di Luca Orlandini, pp. 430, euro 28,00).
Per Fondane la coscienza infelice sosta nei pressi di quella che Hegel chiama «la più terribile cosa», la cosa inerte, la cosa priva di vita e di futuro; ma se è capace di fissare il volto di questa medusa, non è per ritrovare tutto, anche la morte, nella superiore vita dello spirito, ma per denunciare questo tutto come falsità, come illusione, come nulla. La coscienza infelice considera la sua infelicità una specie di destino (tale in effetti è il malheur, come aveva tradotto Jean Wahl). Predendere di oltrepassarla nel mondo ideale ed eterno, il mondo delle idee, è illusorio. Significa infatti oltrepassarla nella direzione del nulla, poiché per lo sventurato le astrazioni razionali sono un nulla e soltanto un nulla. Scrive Fondane: «Ciò che l’uomo percepisce sopra ogni cosa della natura è la possibilità imminente della Sventura. Non cercate di ‘frenare’ il vostro primo impulso, che è quello di toccare legno – sperate, opponetevi alla sorte! Le essenze ideali, immortali, eterne, non sostituiranno mai questi atti fondamentali. Avete provato vergogna nella speranza – e avete accettato che ponessero al di sopra di voi le cose eterne, il Triangolo di Spinoza, l’idea di Socrate, la Volontà di Schopenhauer, l’Evidenza di Husserl, l’Intuizione di Bergson e l’Esistenza di Heidegger! Perfino l’Esistenza al posto dell’esistenza o il Soffio vitale al posto della Vita!».
L’intera storia della filosofia è una trappola micidiale. La concretezza e la realtà della vita è sacrificata all’universalità del concetto. La singolarità è sacrificata alla totalità. Il divaricamento fra l’essere e il dover essere è tolto con un colpo di bacchetta magica. Ed ecco, la vita è fatta coincidere con la Vita: non più la mia vita, la tua vita, con quanto essa comporta di speranza, desiderio, amore, ma la vita sempre identica a sé, la vita che è quella che è e nient’altro. Certo, prosegue Fondane, è ben difficile obiettare alcunché all’essere dei filosofi. Questo essere non ha difetti. È perfetto. È quello che è e soprattutto è quello che non può non essere, né tantomeno essere altrimenti da com’è. L’identità è il suo scudo, il suo fondamento, la sua ragione. Peccato però… Peccato che questo essere sia soltanto ideale e nient’affatto reale. Che cos’ha esso a che fare con la vita di chi spera e dispera, magari irragionevolmente, ma potendo accampare delle ragioni che la ragione non conosce? Nulla. Non ha a che fare nulla perché a ben vedere questo essere è nulla.
A restare intrappolati secondo Fondane sono anche i filosofi che, al culmine di questa storia, hanno preteso di rovesciarne il corso: Nietzsche e Marx in particolare. Tutto lo sforzo di Nietzsche è volto a liberare l’uomo dalla catena della necessità. Salvo ributtarcelo: come dimostra l’idea dell’«amor fati», che alla maniera degli stoici risolve la libertà nell’accettazione nuda e cruda dello stato di fatto. Quanto a Marx, nessuno come lui ha saputo rivendicare il primato della realtà rispetto all’idea. Ma l’idea che l’individuo non sia altro che «l’insieme dei rapporti sociali» è a sua volta un’idea nella quale l’individualità va inesorabilmente perduta. E allora? Dovremo guardare a una filosofia «altra» o a un’«altra» filosofia? Niente di tutto ciò, per Fondane. Alla filosofia non resta che volgersi contro se stessa e mettere in questione il suo stesso presupposto, la sua verità, il logos. Così come all’uomo non resta che volgersi all’impossibile.
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