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Stop Making Sense, la regola dei Talking Heads

Stop Making Sense, la regola dei Talking HeadsDavid Byrne in «Stop Making Sense» – foto di Jordan Cronenweth cortesia di A24

Cinema Nel quarantennale dall’uscita, torna restaurato in sala in 4K e audio Dolby il film di Jonathan Demme

Pubblicato un giorno faEdizione del 12 novembre 2024

Di Stop Making Sense – nei cinema restaurato ancora oggi e domani in 4K e audio Dolby Atmos 7.1 con la Cinema Experience – la grande critica del New Yorker Pauline Kael scrisse quando uscì in sala che era «vicino alla perfezione». Ma questo lo capivano già tutti. In un teatro di Hollywood col pubblico pagante, a pochi passi dagli studios dove al mattino affrontava i capricci delle star per il suo Tempo di swing, il regista Jonathan Demme aveva lasciato che la band – conosceva e adorava da sempre i Talking Heads – illuminasse il palco e facesse il film contando unicamente sulla presenza dei 9 musicisti e dei fondamentali dello spettacolo. Le entrate: quella celebre di Byrne con la chitarra acustica per Psycho Killer. Il lento riempirsi del palco, vuoto e senza scenografie, i tecnici a vista. Le uscite. Gli sguardi, le mosse. L’interplay come si dice nel jazz.

Secondo i principi standard del minimalismo newyorkese, Demme e Byrne misero e rispettarono delle regole: niente luci colorate, no montaggio veloce alla Mtv, niente facce del pubblico (agli spettatori del film non andavano dati «spiegoni»). In quattro serate fu possibile lavorare alla maniera del cinema, non della tv: una serata i campi lunghi, un’altra i primi piani e così via. Il film è fatto per il grande schermo ad alto volume (se la cosa oggi non suona un pochino trita) anche se a volte nel montaggio perde il sync e si nota. Per assicurare la continuità a tutti fu richiesto indossare gli stessi vestiti grigio chiaro. Solo il batterista Chris Frantz – che ci credeva poco – si tenne addosso una magliettaccia azzurra.

Girato in quattro serate, il regista aveva lasciato che la band illuminasse il palco contando su 9 musicisti

MA UN BIG SUIT fu il simbolo visivo del film. Il vestito chiaro dieci taglie più grande tagliato sul corpo di David Byrne da un costumista, indossato alla fine dello show nella canzone Girlfriend is better. Il Mr. Jones, l’omino qualunque, protagonista della performance folle del cantante, scopriva che «una fidanzata è meglio», è meglio smetterla di cercare un senso nelle cose e mettersi a ballare. Una liberazione. Pauline Keal scrive: è il vestito che lo fa ballare, non viceversa.

L’idea nacque durante un viaggio in Giappone, quando a tavola un amico stilista tedesco che si era rifugiato lì a disegnare abiti e suppllettili ultraminimaliste ricordò a Byrne l’uso dei costumi fuori scala nel teatro No.

A proposito di teatro: il rock, pensava David Byrne – lo avrebbe precisato meglio negli anni – era un «genere» musicale come un altro. Non spiegava di certo il mondo, non era spontaneo come pretendeva. Per questo i primi Talking Heads si esibivano al Cbgb fermi come statue e con le camicie abbottonate fino al collo. Dall’album Remain in light in poi, con l’aiuto di Brian Eno, la band aveva recuperato il doppio afro che pulsava fin dall’inizio nel rock’n’roll, la promessa di un nuova sensibilità in cui il peccato, la trance, il senso del sacro di Little Richard, e ora infine il richiamo segreto del voodoo e dell’islam mistico suonavano nei negozietti sotto casa, trasformavano la metropoli in un luogo sempre sorprendente e pericoloso.

Jonathan Demme lo avrebbe raccontato immediatamente con un’altra delle sue commedie: Qualcosa di travolgente. La sintonia con Demme era totale. Curioso di tutto, di ogni persona, ogni storia, il regista aveva imparato da Roger Corman che ogni film, anche il più scassato, può essere salvato dalla musica.

SCRISSE INFINE Pauline Kael che una «stupefacente performance» faceva sembrare il cantante David Byrne «così bianco da somigliare a un finto bianco», quasi fosse la parodia di un impiegato bianco fatta da un «black man». Non sappiamo se Byrne conoscesse il classico Les maitre foux dell’antopologo Jean Rouch, che filma la performance di alcuni uomini di Accra, in Ghana, i quali fanno travestiti e in trance le parti di militari, dottori, impiegati inglesi, in un impossibile teatro anticoloniale.

Sappiamo però che Byrne aveva un debole per gli impiegati – tutti i Mr. Jones schizoidi e smarriti che popolano le sue canzoni. E anche per i telepredicatori della televisione che li rincoglioniscono da mattina a sera, come si vede in Once in a lifetime di cui aveva girato il videoclip, e si sente in My life in the Bush of Ghost, modernissimo cutup di voci della radio e della tv con Brian Eno. Anni dopo ancora Byrne avrebbe seguito il regista Jonathan Demme e lo storico dell’arte africana Robert Farris Thompson nell’esplorazione dei riti voodoo in certi luoghi segreti di New York. Pure dei locali cubani della città diventerà un habituee, capitava che Celia Cruz di passaggio lo facesse salire sul palco a suonare la chitarra. P

rofondamente irritato dal concetto esotico/turistico di world music, etnologo da pianerottolo e da strada, avrebbe riempito la sua musica e il suo cinema di musica cubana e haitiana, Fela Kuti e Celia Cruz, tutta la musica del mondo nelle indimenticabili compilation brasiliane Beleza Tropical o nei dischi della sua ex etichetta Luaka Bop, fino all’ultimo show American Utopia con dimensione Broadway.

È vero, niente di tutto ciò aiuta a ridare al film il suo carattere corale. Ma la perfezione del concerto non deve far dimenticare che è l’ultimo dei Talking Heads, e forse anche qualcosa di più. Rivisto Stop Making Sense è difficile non considerare inutilmente grossolane le messeinscena carnevalesche dei grandi concerti di oggi allo stadio, persino le coreografie dei grandi spettacoli musicali tipo X factor o l’Eurovision.

RESTA IL FATTO che i Talking Heads settantenni hanno tentato di ritrovare un po’ di bene all’uscita di questa versione restaurata (i materiali negativi e colonna audio digitale sono stati avventurosamente ritrovati, tipo caccia al tesoro), presentandosi insieme al festival di Toronto due mesi fa. Byrne, Chris Franz e Tina Weymouth, Jerry Harrison non si vedevano da vent’anni, più o meno: dalla prima «antipatica» copertina di Rolling Stone del 1985 con un primo piano del solo Byrne fino ai dischi registrati a distanza, al veloce scioglimento di gruppo, i rapporti tra loro erano a zero. D

i questo Byrne se n’è scusato tanto. Ma a chi chiedeva di più ha aggiunto: «È come qualcuno dice che dovresti tornare con la tua prima moglie perché state tanto bene insieme».

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