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Stoccaggio CO2, una falsa soluzione

Stoccaggio CO2, una falsa soluzione

Clima Dal 2009 governi di tutto il mondo hanno stanziato 8,5 miliardi di dollari per il CCS, ma solo il 30% è stato speso: progetti mai partiti e altri abbandonati

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 13 giugno 2024

La cattura e lo stoccaggio della CO2, meglio conosciuta con l’acronimo CCS, è una soluzione sbagliata per risolvere la crisi climatica. Lo spiegano Greenpeace Italia e ReCommon nel loro ultimo rapporto dal titolo CCS, l’ennesima falsa promessa di Eni, in cui si evidenzia come la multinazionale petrolifera italiana intenda puntare forte su una tecnologia che finora ha tradito più di una promessa. I dati parlano chiaro: dal 2009 i governi di tutto il mondo hanno stanziato 8,5 miliardi di dollari per il CCS, ma solo il 30% di questi finanziamenti è stato speso perché alcuni progetti non sono riusciti a partire, mentre altri sono in ritardo o hanno ottenuto risultati così deludenti da essere già stati abbandonati per insostenibilità economica o problemi tecnici.

IN AUSTRALIA IL GORGON LNG gestito da Chevron, che incorpora il più grande progetto di CCS del Paese, non ha raggiunto gli obiettivi di cattura previsti e ha visto la compagnia statunitense e i suoi partner correre ai ripari attraverso l’acquisto di crediti di carbonio per rispettare i propri obblighi di decarbonizzazione.

MA UN ALTRO PROGETTO CHE PRESENTA criticità è quello di Snohvit, in Norvegia, che a diciotto mesi dall’inizio delle operazioni di iniezione ha iniziato a mostrare segni di rigetto della CO2, con un rapido aumento della pressione a livelli allarmanti. E ancora, il progetto di In Salah in Algeria, del valore di ben 2,7 miliardi di dollari, è stato sospeso nel 2011 dopo sette anni di attività a causa di dubbi sull’integrità dei sigilli e di movimenti sospetti della CO2 intrappolata nel sottosuolo.

LA CATTURA E LO STOCCAGGIO del carbonio (Carbon Capture and Storage – CCS) e la cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio del carbonio (Carbon Capture Utilisation and Storage – CCUS) sono processi disegnati per raccogliere l’anidride carbonica generata da attività ad alte emissioni, come per esempio centrali termoelettriche a carbone o a gas, cementifici, acciaierie, distretti industriali, impianti petrolchimici – prima che il gas serra venga rilasciato nell’atmosfera. La CO2 viene poi compressa allo stato liquido attraverso varie tecniche di raffreddamento e trasportata tramite condutture, navi o autocisterne in siti in cui viene utilizzata per processi industriali o stoccata in depositi sotterranei, sia su terra (onshore) che in mare (offshore), come acquiferi salini, giacimenti di petrolio o gas esauriti e giacimenti di carbone non estraibili.

COME EVIDENZIATO nelle pagine del rapporto di Greenpeace Italia e ReCommon, le zone d’ombra sono molteplici, eppure Eni si prepara a lanciare una nuova società che raggrupperà le attività relative al CCS. In Italia c’è il progetto pilota ideato con Snam, a Ravenna, che doveva entrare in funzione a marzo, ma di cui per il momento si sono perse le tracce. Sulla carta, proprio con il progetto pilota di Ravenna e la possibile «diramazione» francese Callisto, Eni intende fare dell’Italia l’hub di CO2 nel Mediterraneo.

INTANTO NEL REGNO UNITO, anche grazie al munifico sostegno del governo locale, il colosso italiano del gas e del petrolio ha già siglato un accordo multimiliardario per HyNet North West, che interessa il comparto industriale di Liverpool e che userà come siti di stoccaggio dei giacimenti di petrolio in fase di esaurimento. Ma altri progetti potrebbero vedere la luce in Libia, Paesi Bassi, Asia-Pacifico, Mar Mediterraneo e nel Mare del Nord. Il Cane a sei zampe promette di arrivare a una capacità di stoccaggio gross unrisked di circa 3 miliardi di tonnellate, una capacità attiva di iniezione di CO2 di oltre 15 milioni di tonnellate all’anno (MTPA) entro il 2030, in aumento fino a circa 40 MTPA dopo il 2030.

UN DATO PUÒ AIUTARE a comprendere quanto velleitario e irraggiungibile sia l’obiettivo dell’azienda italiana: il sequestro di 16 MTPA a Ravenna implicherebbe il raggiungimento, in meno di un decennio, di una quota pari al 40% della CO2 oggi stoccato annualmente nel sottosuolo in tutto il mondo, dopo oltre 50 anni di sperimentazioni e attività.

L’INTERESSE DI ENI PER QUESTA tecnologia è talmente forte da aver mobilitato un corposo contingente di delegati per la COP28 di Dubai, identificati dall’organizzazione statunitense Centre for International Environmental Law come lobbisti della tecnologia CCS, in quanto rappresentanti di un’azienda che ha all’attivo progetti pilota di cattura e utilizzo o stoccaggio del carbonio, nonché pubblicamente schierata a favore di queste tecnologie. Non a caso il giudizio dell’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, sulla COP28 è stato molto positivo, soprattutto per quel che riguarda il risultato ottenuto sulla decarbonizzazione dell’industria pesante attraverso la cattura di CO2.

A CONFERMARE LA CENTRALITÀ DI QUESTA tecnologia per il Cane a sei zampe è stata la presentazione del Capital Markets Update 2024, in occasione della quale la società ha illustrato la sua strategia climatica, sostenendo che la CCS diventerà «una delle piattaforme chiave del portafoglio di Eni orientato alla transizione energetica, sia per la decarbonizzazione delle proprie operazioni che come servizio per la decarbonizzazione di industrie terze» e «leva fondamentale per ridurre le emissioni nette e guidare la transizione energetica».

ENI PREVEDE COSÌ DI AUMENTARE fino al 2027 l’estrazione e la produzione di combustibili fossili. Il CCS, denunciano Greenpeace Italia e ReCommon, è quindi strumentale per giustificare l’aumento di emissioni con la promessa di riuscire a catturarle prima che raggiungano l’atmosfera. Un’operazione di greenwashing, denunciano le due associazioni, che ricordano come un recente report bicamerale del Parlamento statunitense abbia mostrato come le aziende fossili incentivino pubblicamente le tecnologie CCS, mentre nei documenti privati ne riconoscono l’elevato costo. Un costo che ricadrà sulle casse pubbliche, privando fondi a un processo di giusta transizione energetica.

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Abbiamo letto con grande interesse il vostro articolo «Stoccaggio CO2, una falsa soluzione» perché ancora una volta ci dà la possibilità di sfatare i falsi miti costruiti attorno al tema della Ccs.
La Carbon Capture and Storage (Ccs) è una tecnologia matura, sicura e competitiva; non rappresenta un’operazione di greenwashing bensì la soluzione ad oggi più efficiente e applicabile in tempi rapidi per abbattere le emissioni delle industrie hard to abate (cementifici, acciaierie, chimica). Settori per i quali non esistono soluzioni altrettanto efficaci, in grado di tutelare livelli occupazionali e assicurare la competitività delle imprese. The European House – Ambrosetti stima che per i settori hard to abate elettrificazione, efficienza energetica, bioenergie, idrogeno e sostituzione delle materie prime potranno, assieme, contribuire a una riduzione non superiore al 52% delle emissioni. Per poter decarbonizzare il restante 48%, pari a circa 30 milioni di tonnellate di CO2 all’anno per l’Italia, sarà dunque necessario ricorrere anche alla CCS.
Per questi motivi la International Energy Agency (IEA) include la CCS tra gli strumenti necessari al raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione, stimando che potrà contribuire a una riduzione dell’8% delle emissioni di CO2 globali tra il 2020 e il 2050. Il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite (Ipcc) ha definito questa tecnologia «imprescindibile», e la stessa Commissione Europea dichiara la Ccs parte cruciale della strategia per la gestione delle emissioni, stabilendo un obiettivo di almeno 50 milioni di tonnellate annue di CO2 catturate al 2030 e di 450 milioni al 2050. Eni sta adottando un ampio ventaglio di soluzioni per raggiungere l’obiettivo di abbattere le emissioni scopo 1, 2 e 3 entro il 2050; la Ccs è una di queste.
Sminuendone l’importanza non si va contro Eni, bensì si smentiscono Onu, Iea, Commissione Europea e la stessa Greenpeace, dal momento che il suo head scientist UK, Doug Parr, ha dichiarato recentemente al New York Times che «se il rilascio di CO2 nell’atmosfera da parte di un impianto industriale è inevitabile, allora è meglio catturarla».
Ufficio stampa Eni

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La ricerca di ReCommon e Greenpeace Italia evidenzia una serie di dati, a partire dai numerosi progetti fallimentari di Ccs, che mette in dubbio le tesi di Eni, che definisce la Ccs una tecnologia «matura, sicura e competitiva». Va inoltre notato che The European House – Ambrosetti è un’entità che compie regolarmente ricerche per conto di Eni, quindi non può essere ritenuta così al di «sopra delle parti» e del tutto autorevole come sostenuto dall’azienda. Preme inoltre ribadire che l’Ipcc, di cui Eni ha riportato la posizione, ha altresì segnalato che il rischio di perdite dai progetti di Ccs è piuttosto alto, tanto da «mettere in pericolo la vita delle persone e degli animali». Per ultimo, la citata dichiarazione di Doug Parr di Greenpeace è stata smentita dallo stesso con il seguente messaggio: «La dichiarazione non va letta come un cambio di passo da parte dell’organizzazione ambientalista, che precisa di restare contraria alla Ccs».
Lu. Man.

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