A ripercorrerla adesso, la biografia di Stig Dagerman appare, nella sua brevità, anzitutto come guidata da una mente poliedrica: ancora venticinquenne, nel 1945 si era imposto nel panorama letterario svedese con il suo romanzo d’esordio Il serpente, cui sarebbero seguite, nell’arco di otto anni, numerose altre opere in forma di narrativa e di testo teatrale, tutte nel solco del modernismo,  spingendo la critica a scomodare paragoni importanti, da Faulkner a Kafka; a questa ascesa in campo letterario Dagerman avrebbe legato anche una attività militante, nella duratura collaborazione con la rivista anarchica Arbetaren, e nel suo impegno sindacale.

Irrequieto, allergico a ogni trionfalismo, Dagerman era mal disposto nei confronti delle pose comuni alla mondanità letteraria e a quelle proprie all‘intellettuale organico. Alle facili scorciatoie offerte allo scrittore borghese desideroso di accostarsi alle classi popolari, l’inquieto Dagerman preferiva fonti dimenticate, sorgenti carsiche, o quel fuoco latente che riecheggia nel titolo dell‘antologia Breve è la vita di tutto quel che arde (a cura di Fulvio Ferrari, Iperborea, pp. 145, € 16,00) che dà conto di tutta la produzione poetica dello scrittore svedese. La sua fama di narratore sperimentale, sabotatore della lingua e delle strutture tradizionali, non riduce tuttavia i  suoi versi a esplorazioni liriche collaudate sul terreno del romanzo.

Attivo nella cornice storica del secondo dopoguerra, Dagerman ebbe una esperienza indiretta del conflitto, ma già nei fondamentali reportage di Autunno tedesco si era occupato da vicino della condizione di profughi e sfollati nella Germania affamata del post-Reich, dei quali per comodità e pudore la stampa internazionale evitava di parlare. Erano tempi di letture dogmatiche, irricevibili per un socialista libertario. A prescindere dal mezzo espressivo e dalla soluzione formale adottati, nei testi di Dagerman viene a galla – e più che mai in queste poesie, da quelle più intimiste alle più infervorate – una tragica coerenza insistentemente ricercata, sebbene con strategie e esiti diversi.

La raccolta è divisa in due sezioni, distinte in base alla destinazione: la prima, Dikter, comprende una serie di componimenti che il curatore definisce «scritti in occasioni diverse, con finalità diverse e scelte formali differenti», alcuni dei quali rappresentano un’onesta testimonianza della passione politica dell’autore e suonano dunque palpitanti, come No Pasaran, disperata denuncia dell’abbandono della causa spagnola da parte della democrazia svedese, scandita da enumerazioni e invettive, che fa il paio con In questo porto, dello stesso periodo, fosca invocazione che da sermone sfocia in bestemmia. Formalmente più tumultuosi e immediati rispetto alla narrativa che il giovane autore stava scrivendo a quel tempo, i dikter contemplano manieristiche personificazioni e sinestesie di cifra romantica, insieme a dialoghi astratti mutuati dal romanzo epistolare. Con le prose di Dagerman, i dikter  condividono la sorprendente capacità di manipolare e plasmare in una scrittura avanzatissima –  complicata e la tempo stesso compassionevole –  quell’«ardore» di cui recita il titolo.

Ricompare, nei dikter dagermaniani, lo stesso potente artificio messo in funzione sia in Autunno tedesco che nel Bambino Bruciato, il suo romanzo forse più importante: a provocare spavento è l’anticipazione di quanto sta per rivelarsi, ciò che balugina preoccupante per pochi attimi, e che la società borghese confina prudentemente sotto il tappeto. È un rimosso con molti nomi e molti volti: il presunto nazismo di chi nel dopoguerra patisce la fame più di prima; il tradimento ai danni di una persona cara o di un’idea; insomma, la colpa di chi pur di adattarsi alla vita è capace di ogni compromesso: «La viltà teme il buio / l’acqua cala giù in fondo / e il fondo sale in superficie / la melma crede di essere viva / verde intorno a eliche e corde / e più di ogni altra cosa / lo specchio teme un volto». In un’altra poesia Dagerman così esorta: «Specchia il tuo occhio nella strada luminosa /finché non si spacchi /spaccarsi è la sola speranza», prefigurando un destino che il giovane scrittore pagherà sulla propria pelle.

Il trasporto che in alcuni momenti prevale in questi versi non evoca tuttavia una fiamma esauribile in un lugubre vitalismo autodistruttivo. Della cifra poetica di Dagerman testimoniano meglio i Dagsedlar, componimenti raccolti nella seconda parte dell’antologia e usciti all’epoca come resoconti quotidiani in forma satirica sulle pagine di Arbetaren, dove l’inventiva del poeta si sublima in ironiche quanto dolenti rime, filastrocche che celano o meglio centellinano quella stessa forza sprigionata altrove in maniera più virulenta. I dagsedlar esplicitano l’antimilitarismo, lo sfruttamento infantile, pescano dalla cronaca del giorno tentando con poche figure, e con ritmato razioncinio, di fornire una controstoria della vita degli ultimi, senza scadere nel didascalico, né vagheggiare nichilisticamente la scelta di mettere fine a tutto.

L’ultimo scritto di Dagerman, prima di togliersi la vita, rientra nei suoi motti più spassosi e più lucidi: Attenti al cane! E svela l’estremo, malinconico  tentativo di esercitare quella «politica dell’impossibile» di cui si era autoproclamato solitario interprete, tra indisponibilità al compromesso e immaginazione radicale.