Matthew J. Bruccoli ha intitolato nel 1981 la sua fortunata biografia di Francis Scott Fitzgerald Una sorta di epica grandezza, prendendo ispirazione da una lettera del 1940 in cui l’autore del Grande Gatsby rivelava alla figlia Scottie di non sentirsi affatto «un grand’uomo», ma di ritenere epica la propria capacità di sacrificare «le qualità oggettive e personali» del talento «per preservarne il valore essenziale». In quel periodo Fitzgerald lavorava come sceneggiatore a Hollywood, dove i ritmi degli Studios lo costringevano a subire umilianti rimaneggiamenti dei suoi lavori per assecondare richieste di produttori, attori e registi, oltre alle stringenti logiche di mercato. Il primo responsabile del fatto che siamo abituati a leggere il periodo hollywoodiano di Fitzgerald come l’ultimo atto della parabola della sua carriera – la caduta nella polvere seguita all’ascesa tipicamente americana «from rags to riches» – è lo stesso autore, che nella corrispondenza privata e in decine di scritti personali alimenta con una certa pervicacia il mito tragico di sé. A differenza di Hemingway, però, Fitzgerald è sempre conscio del carattere artificioso del proprio personaggio autofinzionale.

L’ultimo approdo
Creare il proprio mito e al tempo stesso decostruirlo, sdrammatizzando con autoironia la tragicità della propria ascesa, pagata a caro prezzo, rende alla figura di Fitzgerald un fascino che torna anche nel romanzo di Stewart O’Nan, Di là dal tramonto, rievocazione nostalgica e coinvolgente degli ultimi anni trascorsi dallo scrittore a Hollywood (traduzione di Dante Impieri, minimum fax, pp. 396, € 18,00). Uscito negli Stati Uniti nel 2015, il romanzo ha il pregio di restituirci un Fitzgerald profondamente credibile, già a quarant’anni fragile e disorientato: «quando si trovava a est si sentiva un uomo del Midwest, e quando era a ovest si sentiva un uomo dell’est». Lo statunitense O’Nan, già autore di una sceneggiatura sulla vita di Edgar Allan Poe pubblicata nel 2008 in edizione limitata (Poe: A Screenplay), ha spiegato in un’intervista rilasciata al «Los Angeles Times» di non essersi sentito vincolato ai dati biografici «come a una camicia di forza». Anziché il glamour del jet-set hollywoodiano, i passaggi più riusciti ritraggono Scott nella sua quotidianità, nell’ufficio dell’asettico palazzo dove lavorano gli sceneggiatori (soprannominato significativamente il Polmone d’Acciaio) o nella casa del quartiere periferico di Encino, dove lo scrittore abitò per un periodo. La Città degli Angeli descritta nel romanzo non è la terra dei sogni e delle infinite possibilità, bensì il capolinea del sogno americano, l’ultima spiaggia su cui naufragano coloro che, come scrive Nathanael West nel Giorno della locusta, «sono venuti in California a morire».

Eppure Scott arrivò a Hollywood nel 1937 con l’obiettivo di risollevare la propria carriera, spinto dalla necessità di pagare le spese della clinica psichiatrica dove era ricoverata la moglie Zelda e la retta del college frequentato da Scottie. Erano passati tre anni dalla pubblicazione di Tenera è la notte e il nome di Fitzgerald non era già più associato al cantore brillante e trasgressivo dell’età del jazz, bensì allo scrittore depresso e alcolizzato che nella fredda disamina introspettiva pubblicata l’anno precedente su «Esquire» e intitolata «The Crack-Up» («la crepa», ma anche «il crollo») metteva a nudo la propria «bancarotta emotiva». Forte di un vantaggioso contratto siglato con il colosso cinematografico Metro-Goldwyn-Mayer (che però si tradurrà in una sola sceneggiatura accreditata, Tre camerati, film tratto dal romanzo di Erich Maria Remarque), Scott è deciso a restare sobrio e a tenere le mani salde sul volante, ma tutto sembra cospirare contro di lui: si alza ogni giorno prima dell’alba e va al lavoro con la valigetta piena di bottiglie di Coca-Cola per non cadere in tentazione, eppure troppo spesso si lascia coinvolgere in eventi mondani che si concludono con feste ad alto tasso alcolico. Durante una di queste conosce l’affascinante giornalista Sheilah Graham, con la quale comincia una intensa relazione che costituirà il suo unico appiglio durante il naufragio californiano.

Se quello di Sheilah è probabilmente il personaggio più originale del romanzo, il nucleo emotivo della vita di Scott è sempre Zelda, che alterna momenti di eccitazione violenta a periodi di semi-catatonia indotta dai farmaci. A fare da coro alla sua tragedia personale troviamo una serie di comprimari che nel romanzo sono identificati dai soprannomi usati da Fitzgerald nella corrispondenza privata, quasi fossero comparse nell’immaginazione dello scrittore, echi narrativi dei corrispettivi reali: l’arguta Dottie (Dorothy Parker, all’epoca sceneggiatrice a Hollywood) e il marito Alan Campbell, che insieme a Bogie (Humphrey Bogart) e alla sua compagna Mayo (Mayo June Methot) sono gli amici più stretti di Scott, compagni di bevute e battute sempre pronti a sostenerlo nei momenti difficili. Nella figura di Oppy (George Oppenheimer), sceneggiatore «veterano» che lavora agli Studios da tempo immemore cercando di sbarcare il lunario, siamo tentati di scorgere il modello di Pat Hobby, protagonista dei racconti scritti da Fitzgerald nel 1940 (così come il produttore Irving Thalberg è il modello di Monroe Stahr, l’eroe dell’Amore dell’ultimo milionario, il romanzo incompiuto di cui O’Nan ripercorre la genesi). Non manca uno straripante Hemingway, che in una scena memorabile, ospite di Marlene Dietrich e reduce dalle ammaccature riportate durante il bombardamento di un albergo in Spagna, arringa in mutande un attonito Scott sull’imminente pericolo nazista.

Tra lirismo e disincanto
Il Fitzgerald di O’Nan cerca disperatamente di ricomporre i cocci della propria vita sentimentale e di superare le frustrazioni di quella lavorativa, ma è tormentato dal ricordo di un passato romantico ricco di possibilità sfumate che torna a insinuarsi di continuo negli interstizi di una Los Angeles posticcia come i set degli Studios, dove prevalgono interessi politici, censura e coercizione psicologica – eco dei venti di guerra che spirano dall’Europa. Nel raccontare l’amore dell’ultimo Fitzgerald alla vigilia di un drammatico conflitto mondiale, Di là dal tramonto riesce a stemperare la tragedia grazie a una vena ironica e a una voce narrante in grado di raggiungere vette di lirismo senza perdere il suo sottile disincanto. Nel contrapporre all’«epica grandezza» del Fitzgerald «biografico» la fragilità emotiva e la perseveranza quasi eroica del suo Scott, O’Nan delinea un ritratto dell’artista affaticato eppure infaticabile, ancora capace di meravigliarsi «del proprio declino e della propria capacità di apprezzarlo».