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Steven Wilson l’«imperfetto»

Steven Wilson l’«imperfetto»Steven Wilson in uno scatto di Hajo Mueller

Intervista/Il musicista inglese racconta il suo nuovo album solista, «The Harmony Codex»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 30 settembre 2023

Se c’è qualcosa di difficile nel mondo ineffabile della passione musicale, è essere un fan di Steven Wilson. Chiedetelo a Uwe Häberle, un appassionato di musica tedesco che da anni cataloga in un vero e proprio sillabo, come un monaco benedettino, l’intera opera dell’artista inglese. Il suo lavoro è giunto all’undicesima edizione e ha superato le 900 pagine. L’opera omnia di Wilson è quello che oggi qualcuno amerebbe definire un «multiverso»; non solo i dischi solisti e con la band con cui ha conosciuto il successo, i Porcupine Tree, ma anche le sue diverse identità alternative, solo per citarne alcune: No-Man, Blackfield, Bass Communion. C’è poi il lavoro come produttore e ingegnere del suono che lo ha visto remixare e dare una nuova vita a classici del rock come gli album di King Crimson, Van Morrison, Jethro Tull e Who. Il suo eclettismo è frutto di un’inesausta e quasi bulimica curiosità per la musica che lo ha reso la più inconsueta delle rockstar. Il recente ritorno sul palco con i Porcupine Tree ha registrato sold-out in Europa come in Sud America, i suoi album (solisti o collettivi) entrano nelle chart internazionali, ma quasi con orgoglio Steven ama descriversi come «invisibile per il mainstream».

UN VIAGGIO
The Harmony Codex (Universal) è il suo settimo album solista, e costringerà non solo l’ossessivo Häberle a rieditare il suo digesto, ma anche gli altri fan ad aggiornare la loro personale classifica dei lavori migliori di Wilson. È un concept album senza generi o etichette, pensato per un ascolto immersivo e paziente. «Sono cresciuto con un’esperienza musicale in cui l’ascolto era un viaggio – racconta Steven Wilson, parlando dalla stanza di casa sua, nel nord di Londra, dove raduna la sua imponente collezione di vinili -. Da ragazzo sentivo album incredibili con gli occhi chiusi o spegnendo le luci, senza alcuna distrazione. Mi piacerebbe che il pubblico potesse viverlo in questo modo. So che è molto da chiedere a qualcuno nel 2023, siamo costantemente distratti, ma vedo questo album come un’opera cinematografica per le orecchie. Non si guarda un film interrompendosi continuamente o facendo altro, nelle sale guardiamo i film al buio, mi piacerebbe che la mia musica venisse vissuta in questo modo. Per questo ho presentato The Harmony Codex in alcuni eventi speciali davanti a un pubblico selezionato che ha potuto ascoltare il disco in “spatial audio” in stanze speciali confortevoli e nell’oscurità. Un’esperienza di puro ascolto. Penso che la mia musica richieda un certo livello di coinvolgimento». Spatial audio è una tecnologia che consente un’esperienza audio immersiva e quasi tridimensionale. Spiega Wilson: «Lavoro con questa tecnologia da quasi 15 anni, ma è diventata oggi anche fruibile con delle semplici cuffie e non solo attraverso elaborati impianti hi-fi. Ho lavorato molto affinché The Harmony Codex possa essere un’esperienza sonora tridimensionale e far partecipare l’ascoltatore il più possibile, con continui dettagli che attirino sempre l’attenzione».
L’album è ispirato a un racconto scritto da Wilson (ebbene sì, è anche scrittore) contenuto nel libro Limited Edition of One, pubblicato l’anno scorso: «È una storia distopica di due ragazzi di Londra che vanno a trovare il padre nel suo ufficio nella City. L’edificio viene colpito da un attacco terroristico e i due si trovano a fuggire per una scala che diventa però infinita. La storia a questo punto diventa di fantascienza. L’ispirazione per il disco è questo scenario che diventa metafora e ricorda le opere di M.C. Escher, un percorso infinito in cui non si vede mai la fine».
I testi fanno spesso riferimento alla disillusione, ma non mancano la resistenza e la forza di reagire. «Il messaggio non è pessimista, anzi – spiega l’artista -. Raggiunta la mia età ho capito che la vita non è nella destinazione. È nel viaggio. Più comprendi questo più ti liberi. L’ultimo verso del disco è: “Non vincerai mai a questo gioco”. Non si vince al gioco della vita. La ricompensa non è la vittoria, ma la capacità di far proprie le esperienze, anche quelle negative, arricchendosi e liberandosi così dalle aspirazioni che ci poniamo che sono fonte di delusione e di frustrazioni. Solo così si trova la vera gioia. E dico queste cose come uno che per scelta ha sempre rifiutato i legami nella vita. Ma a cinquant’anni mi sono sposato. Ora ho due figlie acquisite. Sono estremamente felice e non mi sarei mai aspettato, né ho mai progettato, questa svolta nella mia vita». Questa libertà si riflette nell’arte e nella musica. «Nella mia carriera – prosegue Wilson – non ho mai avuto hit colossali, una Roxanne o una Purple Rain, e questo è liberatorio. Se non hai questi pezzi che tutti si aspettano che tu suoni ogni volta che sei sul palco, significa che non sei schiavo di quella musica. Devi però anche guadagnarti il diritto di avere un pubblico che ama essere sorpreso e lo fai affrontando il disappunto dei fan. A me è successo con l’album The Future Bites che molti hanno odiato senza mezzi termini. Non è facile, ma se continui per la tua strada, senza seguire quello che altri si aspettano da te, esci dall’altro lato del tunnel. E sei un artista migliore. Hai ottenuto il rispetto dei tuoi ascoltatori. È quello che ha fatto Bowie, quello che hanno fatto Nick Cave, Kate Bush o Peter Gabriel. Certo ci sono gruppi di miei fan che vorrebbero sempre che facessi il progressive rock o il metal che facevo vent’anni fa con i Porcupine Tree, ma non posso fare i dischi per loro. Cerco di trovare un nuovo vocabolario musicale, di essere non un semplice intrattenitore, ma un artista. Non posso essere diverso da così. E (lo dico con una punta di sarcasmo) sono anche soddisfatto quando deludo certi fan. Significa che sono riuscito a creare qualcosa di inaspettato e nuovo».

IL «LATO OSCURO»
Ma l’avvento dell’intelligenza artificiale cambierà la musica? «Interi generi musicali oggi possono essere già delegati all’AI, pensiamo alla techno o alla house music. Come strumento, una forma di AI esiste da decenni. Forse dai tempi dei primi campionamenti. Oggi però è diventata creativa. Si sta arrivando a un punto in cui ognuno potrà tornare a casa dal lavoro e chiedere al suo computer: “Suonami una canzone in stile Porcupine Tree, cantata da Freddie Mercury… e voglio che sia una canzone felice”. È inquietante. L’elemento umano è escluso dall’equazione, non stiamo più parlando di un accessorio, ma di una sostituzione dell’artista».
Non si può non fare un accenno a uno dei dischi che è alla base della formazione musicale del leader dei Porcupine Tree, The Dark Side of the Moon, il capolavoro dei Pink Floyd che Steven scoprì da bambino nella collezione di vinili del padre e che Roger Waters cinquant’anni dopo ha pensato di ricreare con una nuova edizione. «Quando ho sentito la nuova versione di Money – dice Wilson – l’ho trovata interessante. Sembra cantata da Leonard Cohen. Per uno come me che lavora al remixaggio di album, la reinvenzione dei classici è sempre affascinante. Ma sono molto combattuto. Parte di me pensa che abbia tutti i diritti di fare ciò che vuole, chi sono io per dire che è un intoccabile testo sacro? Ma parte di me ha dei dubbi sulle ragioni che hanno spinto Waters a fare questo disco. Ho l’orribile presentimento che i suoi motivi non siano artistici, ma ispirati da un risentimento e spinti dall’ego. Perché non scrivere piuttosto nuove canzoni?» Per Steven Wilson, il musicista ha sempre davanti a sé una pagina completamente bianca e non deve avere mai paura di creare e di sbagliare, perché, come ama ripetere: «L’imperfezione è segno di personalità».

IL DISCO
Se è vero, come ci ha raccontato nell’intervista, che prova una certa soddisfazione nel deludere i fan pubblicando lavori lontani da quello che chi lo segue fin dagli esordi con i Porcupine Tree si aspetta, allora questa volta chi resterà deluso, quasi per una nemesi, sarà proprio lui, Steven Wilson. Sì, perché The Harmony Codex non solo raccoglierà il favore dei suoi seguaci ma anche di chiunque dalla musica cerchi la bellezza, la classe ma anche la sorpresa. In questo nuovo lavoro del musicista inglese c’è tutto questo e molto di più, le sonorità neoprog di cui è indiscusso maestro tornano ben presenti, riportandoci al capolavoro Insurgentes, e si uniscono a un uso sapiente dell’elettronica; arrangiamenti all’apparenza quasi essenziali che sfiorano la perfezione, sia quando a portare il peso del brano è un pianoforte e poco più, o una sezione di archi, o a dettare la linea sono i riff della sua chitarra elettrica. Brani che spesso sfiorano, o superano, i dieci minuti, senza che la noia o un senso di ripetitività si faccia strada in chi ascolta. Uno degli album più belli della sua ormai ultratrentennale carriera, che, se ancora ce ne fosse stato bisogno, lo pone nel gotha dei più grandi del rock.

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