Stephen Crane, nuvole generate da una mente assetata
Classici ritradotti Fedele alla visionarietà surreale di un testo che mette in scena la guerra come mai era stato fatto, Michele Mari ritraduce «Il segno rosso del coraggio», la cui gestazione complessa avrebbe richiesto di esplicitare l’edizione di riferimento: da Einaudi
Classici ritradotti Fedele alla visionarietà surreale di un testo che mette in scena la guerra come mai era stato fatto, Michele Mari ritraduce «Il segno rosso del coraggio», la cui gestazione complessa avrebbe richiesto di esplicitare l’edizione di riferimento: da Einaudi
Nella pagina più citata di Verdi colline d’Africa, Ernest Hemingway sentenziò che «tutta la letteratura americana moderna nasce da un libro di Mark Twain chiamato Huckleberry Finn». Avrebbe potuto aggiungere che tutto il moderno romanzo di guerra nasce dal Segno rosso del coraggio di Stephen Crane, e in questo caso il suo giudizio sarebbe stato più difficile da contestare. È probabile che, pur senza averlo mai scritto, Hemingway lo pensasse, e non solo perché Stephen Crane è uno dei tre scrittori da lui identificati nello stesso testo come «buoni» (gli altri due sono Henry James e ovviamente Twain), ma perché, in Addio alle Armi diede al suo protagonista Frederic un cognome identico al nome del personaggio principale del romanzo di Crane: Henry. Frederic Henry, inoltre, ottiene una medaglia per una ferita ricevuta accidentalmente – «sono stato colpito mentre mangiavo del formaggio» – e la sua ironia ricorda quella scolpita nel titolo stesso del romanzo di Crane.
Il «segno rosso del coraggio», infatti, verrà ricevuto da Henry Fleming non in combattimento, bensì dal calcio del fucile di un suo commilitone, mentre fugge dal campo di battaglia. Ma questo, «il giovane» (come viene generalmente identificato nel testo) non lo rivelerà mai e avrà difficoltà ad ammettere la sua codardia persino a sé stesso.
Quella dell’ironia è certamente una delle principali cifre stilistiche non solo del Segno rosso del coraggio, ma di tutta l’opera di Crane, e spiega almeno in parte perché questo «episodio della Guerra Civile», come recita il sottotitolo del romanzo, si sia elevato a ur-text di una narrativa di guerra moderna non più incline a descrivere le imprese belliche all’insegna degli ideali romantici. Non è esagerato affermare che tutta la narrativa di guerra degli Stati Uniti, dal loro impegno nella prima guerra mondiale a quello in Iraq e in Afghanistan, si è sviluppata all’ombra del testo di Crane, il primo a sforzarsi di immaginare (perché Crane nasce nel 1871 e la Guerra Civile non poteva averla combattuta) cosa potesse attraversare la mente di un soldato qualunque imprigionato in un caos di polvere, sangue e sudore.
Le numerose versioni italiane di Il segno rosso del coraggio non rendono meno opportuna la nuova, eccellente traduzione di Michele Mari (Einaudi, Gli struzzi, pp. 280, €16,00) che riesce quasi sempre a coniugare una esigenza di scorrevolezza con, all’opposto, la registrazione di elementi stranianti del testo di partenza, che a tratti «stona» anche nell’originale. In alcuni casi sacrificare qualcosa dello stile idiosincratico di Crane è stato inevitabile, come confessa lo stesso traduttore nella sua postfazione, accennando al fatto che, dinanzi a «periodi brevissimi, di norma monoproposizionali» è «quasi impossibile resistere alla tentazione di fondere e movimentare le frasi».
La versione di Mari è fedele alla visionarietà surreale di un testo dove colori, suoni e inusuali similitudini («si trovò in una zona flagellata dalle bombe… Sentendole, credette di avere sopra di lui file di denti digrignati crudelmente») mettono in scena la guerra come nessuno aveva saputo fare prima di Crane (e come Joseph Conrad fu uno dei primi a notare, in un ritratto del giovane e sfortunato collega, morto prima di compiere ventinove anni, che fa da introduzione a questa edizione).
Il genio di Crane non si coglie tanto nelle trame (piuttosto esili, e spesso riprese della nascente letteratura di massa dell’epoca) quanto nelle singole scene. A una scrittura che procede per frasi brevi e non disdegna i salti logici, si affiancano racconti strutturati in tableaux relativamente indipendenti, che spetta al lettore legare tra loro – tecnica che, per alcuni, farebbe dello scrittore un proto-modernista piuttosto che un realista o un naturalista. Da un punto di vista strutturale, è tuttavia innegabile che qualcosa nel romanzo scricchiola, e ciò è dovuto anche alla complessa gestazione del testo, cui purtroppo questa edizione non fa cenno.
Non viene riportata alcuna indicazione su quale sia l’edizione originale utilizzata per la traduzione, e nella sua postfazione Mari si limita a segnalare in una nota che il testo del manoscritto originale del romanzo è «più ampio» di quello pubblicato da Appleton nel 1895. Pur menzionando il fatto che la traduzione del 1994 (uscita da Newton Compton a cura di chi scrive) si basa sull’edizione Norton del romanzo curata nel 1982 da Henry Binder, Mari non dice cosa abbia spinto Binder a produrre un testo sensibilmente diverso da quello della prima edizione.
Per semplificare una genesi assai complessa, basterà dire che sul manoscritto originale Crane apportò, in due momenti distinti, tagli e revisioni molto probabilmente richieste dal suo editore: in assenza di prove definitive (lettere o dichiarazioni inequivocabili da una parte o dall’altra) è una ipotesi è legittima, ed è dunque giusto mostrare una certa cautela nei confronti dell’edizione di Binder.
Più difficile, però, è contestare la tesi secondo la quale le revisioni trasformano quello che nella versione originale era un testo integralmente ironico e che sino all’ultima frase mette in dubbio la presunta «maturazione» del personaggio, in una storia d’iniziazione al termine della quale Henry Fleming può, con una certa plausibilità, rivendicare di essere diventato «un uomo».
Se a lungo una parte della critica ha trovato la trasformazione di Henry poco convincente, questo è perché la versione finale del romanzo, pur pesantemente ritoccata, conserva sottotraccia una storia diversa. Emblematica è l’aggiunta, nell’edizione Appleton, di una frase finale inesistente nel manoscritto: «Sul fiume, attraverso uno squarcio nelle plumbee nuvole cariche di pioggia, giunse un raggio di sole dorato», frase che pare suggerire come la natura stessa, sino a questo punto rappresentata come indifferente ai destini umani, sorrida a Henry, benedicendo la sua «crescita». La versione originale si chiude evocando sì immagini di pace e tranquillità, ma sottolineando come esse siano prodotte dalla mente «assetata» di Henry, senza riscontri oggettivi.
Ora, perché non spiegare al lettore i motivi di questa scelta e, soprattutto, perché eliminare dal testo qualsiasi traccia della sua «fluidità» nel momento in cui si appronta una versione altra da quella in cui è circolato per quasi un secolo, e che molti continuano a considerare valida? Tutte le edizioni in lingua originale del romanzo oggi in circolazione, incluse quelle dei paperback più economici, sono corredate da una appendice con le varianti (che includono addirittura un intero capitolo poi soppresso): non si vede dunque perché non lasciare anche al lettore italiano la possibilità di decidere se i tagli e le variazioni apportate al manoscritto lo abbiano migliorato o peggiorato.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento