Stenografia di Degas, fino alla notte finale
Daniel Halévy, "Degas parla", a cura di Jean-Pierre Halévy, Adelphi Per vent’anni Edgar Degas si sedette al desco di Ludovic Halévy, genio dell’operetta: il figlio Daniel sin da ragazzo registrò la vita quotidiana e la cecità progressiva dell’artista, in un commovente (e rivelatore) Journal
Daniel Halévy, "Degas parla", a cura di Jean-Pierre Halévy, Adelphi Per vent’anni Edgar Degas si sedette al desco di Ludovic Halévy, genio dell’operetta: il figlio Daniel sin da ragazzo registrò la vita quotidiana e la cecità progressiva dell’artista, in un commovente (e rivelatore) Journal
«Il suo isolamento e la sua lingua caustica gli procurarono la fama di “uomo cattivo”, che Ernest Rouart ed altri hanno sfatata. Ma non è dubbio che l’impegno posto da Degas nel nascondere ciò che vi potesse essere in lui di affettuoso e benevolo spiega il sorgere della leggenda» (Lionello Venturi). Oltre a Ernest Rouart, l’amico di Valéry, colui che gli offrì motivi e ricordi per il saggio Degas Danza Disegno, un’altra persona, di Rouart coetanea, che come lui aveva bevuto le parole di Degas sin da ragazzino, ha contribuito a sfatare la leggenda, a rivelare dietro la presunta cattiveria la sofferenza, psichica e morale, dell’uomo incorruttibile: è lo storico e saggista Daniel Halévy, compagno d’adolescenza di Proust, figlio di Ludovic – genio dell’operetta e librettista di Offenbach –, «uno degli autori più brillanti degli ultimi cinque anni del Secondo Impero, che prima di essere un disastro fu una meraviglia» (Daniel). Questa meraviglia Ludovic l’aveva condivisa, al culmine dietro le quinte dell’Opéra, con Edgar Degas: nati entrambi nel 1834, erano stati compagni al liceo Louis-le-Grand. Ma ancora più intima di Degas, fu la madre di Daniel, Louise Breguet, la cui famiglia d’origine, i Breguet-Niaudet, era stata la prima tra quelle, tutte di borghesia liberale cólta – i Valpinçon, i Morisot, gli Halévy, i Rouart –, presso le quali trovava rifugio dalle sue asprezze, dai tormenti del suo idealismo integrale, il solitario Degas: scene di incontro perfettamente adatte all’asciuttezza ora amara ora ironica delle sue massime, dei suoi paradossi, delle sue cronachette morali.
I detti, le posture
Per vent’anni, fra il 1877 e il 1897, Degas si sedette al desco degli Halévy: Daniel, nato nel ’72, ebbe precoce coscienza del privilegio che gli era offerto, dell’idea di «grandezza», così si esprime, che aveva l’opportunità di trarne per allargare gli orizzonti della sua vita, poi arricchita da altri maestri: Nietzsche, Proudhon, Sorel e Charles Peguy, del quale ultimo divenne intrinseco sul finire del secolo. Questa coscienza lo spinse a tenere un diario, dove annotò con secchezza non solo i detti memorabili e le posture di Degas, ma anche le impressioni che egli ne traeva, prima adolescente, poi giovane uomo. Solo nel 1960, a ottantasette anni, Daniel Halévy decide di pubblicare le antiche carte, integrandole con testi introduttivi dettati nel presente (era ormai cieco, come il vecchio Degas): si tratta dunque, insieme, di un’appassionata testimonianza al vivo e di un confronto malinconico fra due sé lontani nel tempo. Quell’edizione era purtroppo minata da un certo numero di omissioni ed errori di datazione, che sono stati sanati nel 1996, per le Éditions de Fallois, dalla attenta cura di Jean-Pierre Halévy, il quale ha aggiunto due testi di Daniel: il saggio inedito Grandezza di Degas, scritto negli anni cinquanta, e l’articolo del ’19 per la rivista «Divan». Il libro – la cui lettura andrebbe integrata con le Lettres de Degas (Grasset 1997) prefate dallo stesso Halévy – è adesso donato ai lettori italiani da Adelphi, «Biblioteca» numero 691, nella traduzione di Tommaso Pezzato: Degas parla (pp. 245, euro 20,00, 19 foto in b/n, 16 dello stesso pittore).
Quell’estate a Dieppe
Fra il 1885 e il 1888 gli Halévy cominciano a diventare per Degas una vera e propria famiglia: può arrivare a pranzo inaspettato e c’è subito un posto per lui. Determinante, l’estate del 1885, quando l’artista è ospite degli Halévy a Dieppe, in una villa presa in affitto accanto a quella degli amici Blanche (il figlio è il pittore Jacques-Émile, autore del celebre ritratto di Proust), all’estremità occidentale della spiaggia. Ricordando quella vacanza, a Daniel, in una nota del 1890, viene da «urlare di gioia». Fra le molte figure coinvolte, due pittori di rango: Whistler, che se la intende con Degas, e Sickert, in «perpetua ammirazione» di entrambi. «Nei giorni di bel tempo si facevano lunghe passeggiate, sostando a riposarsi nelle fattorie», ricorda Daniel in vecchiaia.
«È durante quell’estate – scrive nella Premessa Jean-Pierre Halévy – che Degas e Daniel cominciano a studiarsi reciprocamente», ed è circa tre anni dopo che Daniel comincia il suo journal. Ha sedici anni ma siamo stupiti dalla maturità con cui registra e commenta le parole di Degas, che spaziano dai valori della vecchia Francia ai gusti musicali e letterari, dalla psicologia delle donne all’attualità politica, dalla fatica di fare sonetti (agli otto sonetti da lui scritti è dedicato nel libro un capitolo in appendice, con traduzione) ai – ma qui è molto parco – segreti del dipingere. È il ritratto di un uomo in conflitto, soprattutto con il sistema delle Belle Arti e con la critica militante; di un nevrotico, «eminentemente sensibile e ricettivo al contraccolpo della natura delle cose» (fratelli Goncourt); di un originale che non vuole farsi accalappiare; di un filosofo, sempre pronto a tenere al proprio posto gli assoluti del suo mestiere, che rischiano di perderlo, e di mettere in valore la sostanza umana del vivere, i codici di comportamento come l’espressione degli affetti. Daniel è stupito di come Degas venga sconvolto dalla morte di una persona amata e di come partecipi attivamente al lutto che colpisce gli amici. Quando il pittore Albert Bartholomé perse nel 1887 la sua giovane moglie, «già ridotto a un ecce homo, Degas divenne praticamente inseparabile dall’ecce homo in cui si era mutato Bartholomé», e perdipiù convinse quest’ultimo alla scultura, «che giudicava un’arte più adatta della pittura a esprimere la profondità del dolore». Si chiama condoglianza ed è curioso trovarla fra i tratti distintivi di un uomo considerato misantropo.
«Quando ascolto Beethoven mi pare di camminare da solo in un bosco, carico di tutte le mie pene. Suonatemi Mozart o Gluck». Realista, antiromantico, Degas predilige Gluck e la musica italiana antica (Cimarosa, come Stendhal), di cui aveva conservato il gusto dagli anni di giovinezza trascorsi a Napoli, dove, come si sa, si era radicata una parte della sua famiglia. Allo stesso modo, in letteratura, quando Daniel lo tenta alla prosa di Heine, «basta – mi disse – quell’ironia mi urta i nervi. A me piace un altro tipo di comicità, mi piace Gil Blas, mi piacciono le parole con cui si chiude la narrazione delle sue bravate». Ai suoi occhi il modo in cui Lesage aveva rinnovato in Francia la tradizione picaresca ha del meraviglioso tanto quanto le novelle, da lui preferite sopra tutto, delle Mille e una notte. Si può supporre che questa leggerezza lo attirasse sì per la sua allergia verso la profondità e l’intellettualismo, verso coloro che, prendendo a prestito dall’amato Proudhon, definiva i «letterastri», ma anche perché cacciava via, per un momento, i suoi triboli e i suoi fantasmi.
Un’altra medicina è il collezionare, discretamente vorace. Nel diario di Daniel i rari momenti di contentezza di Degas sono legati a un acquisto: «“Due Delacroix!”, ha risposto saltando giù dal letto, all’improvviso del tutto desto. “E hanno una bella storia…”».
Nel Degas di Valéry l’occhio è uno strumento della volontà, niente di naturale e spontaneo nel vedere, il vedere è una conquista, e ogni conquista è difficile: «Degas rifiutava la facilità come rifiutava tutto ciò che non fosse l’unico oggetto dei suoi pensieri». Valéry traccia, intorno ai concetti di volontà e di difficoltà, una vera e propria fisiologia del vedere: «il cervello si fa pura retina», il sistema dei sensi «tutto un organo di mira, di puntamento, di aggiustamento, di messa a fuoco». Meno teorico, Daniel Halévy è più propenso a considerare questi aspetti come il frutto del deficit oftalmico, che comincia a manifestarsi quando Degas è ancora relativamente giovane, e la cui origine sarebbe il gelo patito nelle notti da sentinella durante l’assedio di Parigi del 1871. «Solitario, lavorava obbedendo ai comandi sempre più imperiosi del suo genio con occhi sempre più deboli e confusi, che toglievano ogni fermezza alle linee cui la sua volontà di artista desiderava dare una precisione assoluta». Un episodio: Daniel ricorda che quando aveva circa dodici anni (dunque è il 1884, Degas ne ha cinquanta), su invito della madre chiede al maestro un disegno per la copertina del suo giornale scolastico ciclostilato. Egli lo realizza davanti a lui, dopo aver avvicinato la lampada, «assunto un’espressione serissima», essersi schermato la vista: «Lo sforzo era evidente; poi finalmente si fermò, appose la firma, si passò una mano sulla fronte corrugata…». Qui Daniel ritiene «di aver visto cominciare» la «prova terribile» della cecità progressiva di Degas.
Addio alla punta fine
Sempre più, con la cecità, Degas ‘complica’ il suo modo di operare, la selezione e gestione delle tecniche, di cui padroneggiava un amplissimo ventaglio. Persino, sembra pasticciare. «Per raccapezzarsi nell’opera di quell’alchimista semicieco ci vuole tutta la sagacia degli specialisti», scrive Daniel Halévy. In particolare, «dovette abbandonare la punta fine, che tanto aveva amato». In sostanza, fu costretto a rinunciare definitivamente al suo credo lineare, formatosi in gioventù sull’autorità del venerato Ingres. Alle ragioni fisiologiche si mescolano quelle esistenziali, la catastrofe morale patita in relazione ai disastri finanziari della sua famiglia, del fratello René e del cognato Henri Fèvre, il cui fallimento immobiliare lo aveva costretto a emigrare in Argentina, sottraendo a Edgar l’amatissima sorella Marguerite (che non avrebbe più rivisto) e i nipoti.
Mostra da Durand-Ruel
Ecco dunque che alla purezza lineare degli esordi, poi venuta a patti non con il colore ma con l’effetto di luce-ombra (giudicato da Venturi, bene, come «una espansione della linea»), subentra nella disperazione l’«espressionismo» della stagione finale, pastelli e disegni «dai tratti pesanti, violenti: donne nelle tinozze, ballerine, donne che si pettinano, donne distese a cosce aperte». È Daniel Halévy che scrive, in una nota del 4 maggio 1918 (Degas era morto il 27 settembre dell’anno prima) dedicata all’esposizione dei disegni dell’artista da Petit, che seguiva di cinque giorni quella dell’intero atelier da Durand-Ruel: tutto prima della dispersione integrale dell’opera. «Una sorta di accanimento nella bruttezza e nello squallore che sconcerta e rattrista»: Daniel, legato a un gusto in fondo accademico (seppure di un’accademia selezionatissima, la forma depurata di Ingres), è ferito, non capisce la violenta modernità dell’ultimo Degas, che ‘apre’ a Toulouse-Lautrec: rimane incantato, o imbambolato, davanti alla produzione giovanile, «un’arte interamente ispirata agli antichi maestri toscani o francesi», davanti ai quadri di rarissimo soggetto storico-mitologico di quegli inizi, come Giovani fanciulle spartane provocano dei ragazzi (episodio cavato da Plutarco), cui lo stesso pittore era particolarmente affezionato nei suoi ultimi anni e che Halévy ricorda staccare su un cavalletto dalla confusione polverosa e drammatica dell’atelier, nella dimora di rue Victor-Massé, la stessa dove andava a fare visita Valéry. Quel «gruppo di giovani nudi che si preparavano alla lotta: i corpi così nervosi, così eleganti, così giovani», delineati, segnano il gusto antico e ritardatario di Daniel Halévy, il quale non poteva accettare la demolizione della bellezza perpetrata da Degas negli anni finali. Ma nell’edizione attuale di Degas parla a questo ritardo di comprensione fanno da contrappunto, fra i testi in appendice, le lettere spedite a Daniel nel 1960, subito dopo l’apparizione del libro, dal pittore polacco Józef Czapski, cui lo legava una stretta amicizia, il quale difende a spada tratta la crudeltà di visione delle donne in tinozza, considerate non sordida deviazione ma esito grandioso, che «ha avuto un’enorme influenza sulle generazioni successive: su Toulouse-Lautrec, Vuillard, Bonnard, fino all’umile sottoscritto». Daniel, però, resta affezionato alla «tenace predilezione» e alla «nostalgia» di Degas per la pittura antica e i suoi soggetti, testimoniate in una lettera a Bartholomé: «Il mio cuore è appassito, l’ho chiuso in una scarpetta di raso rosa…».
All’inizio del 1898, intorno al caso Dreyfus, si consuma la rottura tra Degas e la famiglia Halévy. Daniel ne è sconvolto: «Si riesce a malapena a credere che un legame così duraturo e fecondo possa venire reciso d’un sol colpo»; «Distrutti i miei ricordi, le mie più belle speranze del passato; minacciate le mie più belle speranze per il futuro: è la guerra civile». Degas è dalla parte sbagliata ma sarebbe un errore giudicare il suo antisemitismo secondo un’ottica novecentesca, tarata sull’esperienza del Lager. Lo consiglia la stessa lettura del libro di Halévy, il quale ricorda che in una cena in cui egli «fu oggetto di generale disprezzo, non poté sopportarlo e disse che non si può giudicare un uomo sulla base di una semplice opinione». A Daniel pare di avere individuato la genesi della follia di Degas: egli non aveva mai avuto interesse per la vita pubblica, gli si accese a partire dall’inizio degli anni novanta con la lettura quotidiana, sulla Libre Parole, dei virulenti editoriali del pamphlettista Édouard Drumont, il quale «pretendeva di avere una spiegazione» per «il generale decadimento dei costumi francesi», manifestatosi nel decennio precedente con una serie di scandali di cui il pittore aveva sofferto. Affezionato alla storia di Francia, le cui immagini gli si erano impresse dentro, verso i cinquant’anni, attraverso la lettura, fattagli dalla cuoca Zoé, dei romanzi di Dumas padre, che Degas «ascoltava docile, soddisfatto» come guardasse in una lanterna magica, negli scritti viscerali di Drumont vide queste immagini deturpate dall’avanzare di una sconsiderata modernità segnata dallo spirito juif.
Vecchia Francia artigiana
In Degas l’amore per la vecchia Francia artigiana e del terzo stato, «felice della sua pace, del suo lavoro e della sua oscurità» (i Goncourt), è esattamente lo stesso che ritroviamo nelle parole di Auguste Renoir riportate dal figlio Jean in Renoir mio padre: un sistema di valori fatto di concretezza, rusticità, naturale propensione all’ordinato e al bello, gentilezza. Anche certe esasperazioni verso il prevalere di manifestazioni estetiche contemporanee, considerate velleitarie, sono simili. Ma, al contrario che in Renoir, tutto questo nell’infelice e paradossale Degas finisce per dare in acido, e in questo acido si mescolano velenose valenze ideologiche le cui conseguenze generali la naïveté del suo pensiero politico gli impediva di minimamente sospettare.
Nonostante la fine dei rapporti tra Degas e il padre Ludovic, Daniel non rompe, accompagna a singhiozzi il procedere dell’artista nella notte finale. Qui i suoi ricordi si fanno a tratti struggenti: «Com’era bello sentirvi parlare». La cecità non impediva a Degas di passeggiare e negli ultimi anni lo si vedeva, con il suo macfarlane, la barba profetica e il bastone «sempre proteso a tastare il terreno» (uno di quei bastoni, forse, che aveva costruito lui stesso con legni e pelli di serpente della Martinica fornitigli da Vollard), cercare i segni, e i vuoti, della Parigi di un tempo: «Eppure riusciva a camminare veloce, sempre da solo… La grandezza è una cosa straordinaria, magica: è impressa in ogni gesto di un uomo…».
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