Stenografare gli inferi con il proprio sangue
Da Quodlibet «I profughi», 1953 di Arno Schmidt Tra i dieci milioni di espulsi dopo la II Guerra dalle zone a est dell’Oder, un treno e una coppia... Lo «zoom» feroce dello scrittore e testimone tedesco
Da Quodlibet «I profughi», 1953 di Arno Schmidt Tra i dieci milioni di espulsi dopo la II Guerra dalle zone a est dell’Oder, un treno e una coppia... Lo «zoom» feroce dello scrittore e testimone tedesco
Arno Schmidt o della lontananza: si vorrebbe così chiudere in sintetica formula il sentimento che, a ogni nuova occasione d’incontro, produce l’unicità altera e irriducibile della prosa di uno scrittore tanto poco rapace di lettori, o almeno di lettori renitenti alla fedeltà assoluta e magari poco disposti a farsene esegeti e maniacali, puntigliosi commentatori. Negatosi, per volontà e destino, al consumabile (sia esso nobile e d’elevato profilo), Schmidt resta a oggi immacolato, teso a volarsene solitario e scontroso dentro strati atmosferici irraggiungibili, in cieli remotissimi e pressoché inesplorati dagli infelici troppi forniti di ali inadeguate. Verrebbe da dire che il «taglialemma di Bargfeld», l’erudito anacoreta, il misantropo irrispettoso ci guarda – sempre ammesso che ci guardi! – da una distanza di sicurezza siderale, se non venisse il sospetto che solo in piccola parte conti o c’entri l’indubbia diseducazione letteraria d’oggidì con le sue fughe regressive e restauratrici. No, il punto pare un altro e di ben più radicale portata e natura, e la domanda insomma potrebbe essere: c’è mai stato il tempo di Schmidt? Oppure: si è mai prodotto un ascolto profondo della sua opera persino negli anni cinquanta, sessanta e settanta del secolo scorso, vale a dire in epoca certo meno risibile di quella presente?
Certo, non mancarono sbalorditi ammiratori e sostenitori convinti del calibro, tanto per citarne qualcuno, del vecchio e glorioso Alfred Döblin e poi di Gunther Anders, Theodor W. Adorno, Siegfried Lenz, Martin Walser, Jean Améry, Max Bense e, in Italia, di Cesare Cases (un suo pionieristico saggio del 1963 rimane prezioso e imprescindibile) e di Bonaventura Tecchi (addirittura nel ’59). Ma questi apprezzamenti non impedirono poi al benemerito Ladislao Mittner, nella sua classica Storia della letteratura tedesca, di nutrire il fondato dubbio che fosse stata messa in atto un’autentica congiura «del silenzio e della minimizzazione». «Quanto sono rari e poco apprezzati in Germania scrittori d’inconfondibile stampo illuministico come Arno Schmidt!», esclamava lo studioso, secondo cui a questo imperdonabile mistico, a questo formalista assetato di stile sarebbe convenuto vivere nell’età di Wieland.
Il fatto è che questo autore, nato ad Amburgo nel 1914 e morto a Celle (in Bassa Sassonia) nel 1979, amava camminare da solo e in anticipo su tutte le nuove avanguardie del secondo Novecento, figlio ferito della tragedia tedesca ed europea e testimone spietato della Grande Vergogna, il quale mai dimenticò (si legga in proposito, composto nel ’57, Ateo?: Altroché!, a cura di Dario Borso e Domenico Pinto, Ipermedium Libri, 2007) di avere (era stato in guerra per un quinquennio, da sergente, con un anno di prigionia) «annusato una vagonata di cadaveri in guerra», nemico dunque risentito e anzi saturo di inestinguibile rancore nei confronti di ogni pacificazione e di ogni seppur minima rimozione – il fatto è che appunto Schmidt ha sfoderato armi imperdonabili: il ghigno feroce, il sarcasmo, il cuore di pietra nel cui battito tuttavia si nasconde l’immensa pietas dell’esercizio critico, la scarnificazione della lingua e della sintassi, l’andatura anche greve del parlato quotidiano e la procedura alta, metafisica, filosofica e ancora una vocazione interamente votata a un utilizzo pratico della letteratura e insieme la passione speculativa per le scienze esatte e le discipline matematiche, una visione materialistica e affatto irreligiosa del mondo e demistificatrice e apocalittica della storia: «Sarei felice, se il genere umano avesse fine. Nutro la ben fondata speranza che entro i prossimi – mettiamo – cinquecento o, al massimo, ottocento anni esso si sarà autodistrutto completamente. E sarà una cosa ben fatta». Ecco cosa si legge nel racconto d’esordio Il Leviatano o il migliore dei mondi, tra i suoi più belli e di certo un capolavoro con al centro gli ultimi giorni della Germania nazista ormai devastata, un autentico viaggio al termine della notte, uscito nel 1949 e pubblicato per la prima volta in italiano nel ’66 (tradotto da Rosanna Berardi Paumgartner ed Emilio Picco) sul «Menabò» di Calvino e Vittorini e in seguito, insieme a Tina o della immortalità (’64), apparso in volume nel ’91 pei i tipi di Linea d’ombra (a cura di Maria Teresa Mandatari), infine nel 2013 da Mimesis (nella versione di Borso). Esiodeo dunque e, al medesimo tempo, lucreziano e astrale. Con un divorante desidero di classicità in un’epoca in cui la contemplazione atterrita e sgomenta delle rovine rendeva impossibile e quasi vergognosa ogni sorta di ricomposizione formale e perciò politica.
Si accennava all’inizio alle nuove occasioni d’incontro, ed ecco adesso un nuovo titolo che va ad arricchire significativamente la bibliografia italiana, dopo Alessandro o Della verità del 1959 (a cura di Picco, Einaudi ’65: il volume contiene inoltre Gadir ovvero Conosci te stesso, ’49; Enthymesis ovvero Q. V. O., ’49; Cosma ovvero La montagna del nord, ’59), Dalla vita d’un fauno del ’53, Brand’s Haide del ’51 e, dello stesso anno, Specchi neri, una trilogia tradotta e curata da Pinto per Lavieri (2006, ’07 e ’09), mentre nel 2011, a cura di Borso e per i tipi di Zandonai, è arrivato in libreria Paesaggio lacustre con Pocahontas, scritto nel 1953 e stampato due anni dopo. Ecco allora I profughi (Quodlibet, a cura di Dario Borso, pp. 156, euro 16,00), testo composto da Schmidt nel ’52 e dato alle stampe l’anno seguente, a confermare (almeno per un lettore non specialista) la strabiliante compattezza di un autore (fors’anche suo malgrado) ben radicato nella storia e nella lingua tedesca, sebbene in entrambi gli ambiti sempre in posizione agonistica e antagonistica, di scontro aperto (ad esempio: «O miei compagni di lingua! Lo scrittore: una volta che il povero diavolo, franco tiratore dello spirito, è morto, cent’anni dopo, vorrebbero strapparlo ad ogni costo dal suolo con unghie germanistiche. E poi senza pudore ancora reclamarlo come “Poeta Tedesco”, come patrimonio del popolo: costui vi sputerebbe bellamente addosso, miei egregi compagni di lingua!»). Qui siamo poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale, quando oltre dieci milioni di tedeschi sono costretti a lasciare le zone a est dell’Oder, a quel punto passate alla Polonia e alla Cecoslovacchia. Lo zoom di Schmidt si ferma su un treno (ancora una volta, come nel Leviatano) e su due personaggi, uno scrittore e traduttore tanto simile all’autore per quello che dice e per le modalità del dettato e una giovane vedova di guerra mutilata di una gamba a causa di un bombardamento aereo. L’uomo e la donna viaggiano insieme, si scelgono, si innamorano, approdano in una piccola località e decidono di mettere sù casa (paga lei che riceve una pensione di centoottanta marchi). Ma tutto vi appare provvisorio, disfatto, rovinoso. Del futuro non si sa e non si parla. Non si smette mai di essere profughi. Proprio a ridosso della composizione di questo testo, Schmidt, nel corso di un intervento radiofonico, affermava che lo scrittore deve «dare un quadro del suo tempo» mediante «il ritratto dei processi mentali di un uomo» che dentro quel tempestoso snodo vive e opera. E in una coeva lettera al venticinquenne Martin Walser aggiungeva: «Non accuso; non ho tempo per le accuse; io descrivo. Sono il topografo delle cadute orizzontali agli inferi: colui che tra altri cade e stenografa col sangue delle proprie vene: se va, va!». Ma descrivere, come anche I profughi dimostra e come questo scrittore ben sapeva, è accusare. Se egli è stato, come volle definirsi nel 1972, «un grande umorista tedesco», occorre tornare a Lichtenberg per trovarne un altro che gli sia alla pari.
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