Stemma britannico per l’epigrammista: Marziale secondo Lindsay
Quando affronta il testo di Marziale (pubblicato a Oxford nel 1903 – un’editio altera con poche novità uscirà ibidem nel 1929), Wallace Martin Lindsay (1858-1937) è da poco professore a St Andrews e ha alle spalle diversi lavori, il principale dei quali è The Latin Language (1894). I suoi interessi si indirizzano verso lingua, lessicografia, glossografia, paleografia, tradizione del testo. Un autore che consente di combinare lo studio di questi aspetti è Plauto, cui Lindsay dedica una serie di pubblicazioni culminante nell’edizione oxoniense delle Commedie. All’attenzione per lessico e costrutti arcaici e colloquiali si affianca coerentemente quella per l’opera di grammatici ed eruditi: a Lindsay si devono le monumentali edizioni di Pompeo Festo, Nonio Marcello e Isidoro di Siviglia. Significativo che in questo prodigioso corpus si annoveri un solo commento, ai Captivi di Plauto, provvisto di note sintetiche in particolare di lingua e metro – spia di scarsa inclinazione per l’interpretazione (atteggiamento condiviso per altro da numerosi colleghi dell’epoca).
Nella produzione di un filologo tanto impegnato a esplorare con sistematicità territori marginali e, per sua stessa ammissione, poco attraenti (Nonio è stato definito «cibo per pionieri ed entusiasti»), spicca l’edizione degli epigrammi di un autore popolare come Marziale: niente glosse o arcaismi sintattici qui, ma una tradizione manoscritta ampia, oggetto di validi studi nel corso dell’Ottocento. Sua caratteristica peculiare (messa in luce definitivamente proprio da Lindsay con la monografia The Ancient Editions of Martial, 1903) è la suddivisione in tre gruppi (o famiglie) di codici risalenti ciascuno probabilmente a un’edizione tardo-antica. Ne deriva che può essere tracciato lo stemma (l’‘albero genealogico’ che visualizza il rapporto fra i testimoni) di ciascuna famiglia ma, poiché le tre edizioni antiche da cui i testimoni a noi noti derivano erano tra loro contaminate, non è applicabile un criterio maggioritario nella scelta delle varianti: la concordanza di due famiglie contro una terza non ha di per sé valore probante e l’editore è chiamato a esercitare il suo personale giudizio.
Letto senza soluzione di continuità dal tardo antico all’età umanistica, trasmesso in un gran numero di manoscritti, Marziale aveva fornito nel secolo XIX un banco di prova straordinario per la messa a punto del metodo ecdotico che si andava definendo. La prima edizione secondo criteri moderni era uscita nel 1842 (otto anni prima, si badi, del mitizzato Lucrezio di Lachmann) a opera di Friedrich Wilhelm Schneidewin, talentuoso filologo che sarebbe mancato nel 1856 a soli 46 anni (in tempo però per dare alle stampe, nel 1853, una seconda edizione ancora reperibile nelle biblioteche universitarie). Schneidewin aveva riconosciuto la suddivisione in tre famiglie e operato un lavoro di recensio (la raccolta e l’esame dei testimoni al fine di individuarne la posizione nello stemma e dunque il valore per la costituzione del testo) straordinario per l’epoca: la praefatio dà notizia di oltre cento manoscritti e di una settantina di edizioni. La fase pionieristica è però inevitabilmente segnata da asistematicità e disuguale affidabilità delle collazioni, mentre il lodevole intento di completezza produce un apparato affollato dalle sigle di ben 66 testimoni e dunque non facilmente fruibile. Seguirono altre due edizioni, fra cui si segnala quella a cura di Ludwig Friedlaender (1886), corredata del primo, ottimo, commento moderno agli Epigrammi.
Rispetto ai predecessori, Lindsay dedica maggiore attenzione ai testimoni, mettendo a frutto le sue enormi competenze di paleografia e codicologia, e al tempo stesso linearizza l’apparato. Non è mosso invece da particolare interesse nei confronti di costituzione del testo e proposte congetturali, tanto che dichiara di non poter dare un grande contributo ad emendanda haec epigrammata.
Il Marziale oxoniense fa scuola. Un guadagno di fondo è la messa in valore di alcuni testimoni ignorati o trascurati e in particolare del codice L (Lucensis in quanto proveniente dalla chiesa di Santa Maria Corteorlandini di Lucca e acquisito dalla biblioteca di Berlino nel 1900) nel quale si riconosce di gran lunga il migliore, oltre che il più antico, testimone della seconda famiglia. Per quanto riguarda la facies dell’apparato, Lindsay sceglie una sintesi spietata, non inserendo sigle per i singoli codici ma per l’archetipo di ciascuna famiglia (indicato rispettivamente con Aª Bª Cª) e precisando solo ove necessario lezioni di specifici testimoni: un’impostazione di rara fruibilità che viene ripresa senza eccezioni dai successivi editori del corpus marzialiano ma corre il rischio di appiattire i dati in nome della chiarezza (come rilevato da più recenti editori di singoli libri, a partire da Mario Citroni).
Una tale esemplare recensio lascia poco da fare al di là di correggere qualche svista nella lettura del testo o nell’attribuzione di congetture, al punto che poco aggiungerebbe un nuovo esame della tradizione. David Roy Shackleton Bailey, con malcelata svalutazione delle ricerche altrui, considera un lavoro di recensio dopo quello di Lindsay alla stregua di una sterile aratura della sabbia, ricordando il mito di Ulisse che si finge pazzo per non dover partecipare alla spedizione contro Troia – lo studioso parla evidentemente pro domo sua dal momento che per approntare l’edizione Teubner degli Epigrammi (1990) ha dato corso a una personalissima inclinazione per congetture non sempre necessarie o fondate senza vedere un solo manoscritto.
Diversi valutazione e impatto dell’opera di emendatio di Lindsay. Nel complesso, la scelta delle varianti del Marziale è impostata in modo conservativo e insieme contraddittorio. Da una parte, l’entusiasmo per la scoperta del Lucensis, subito promosso a codex optimus, porta a riconoscergli talvolta un peso eccessivo, accogliendo nel testo evidenti banalizzazioni – la soggettività, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra. Dall’altra, questa messa in valore non è coerente e in qualche caso la concordanza di prima e terza famiglia è preferita a lezioni della seconda che appaiono senza dubbio migliori e vengono infatti stampate a testo dai successivi editori.
Limitata propensione alla emendatio, ritenuta addirittura inutile a fronte di una recensio ben fatta, e ritrosia dall’intervento congetturale possono essere valutate apprezzando serietà e rigore (niente tentazioni di fanta-filologia!) o all’opposto criticando la subordinazione della critica testuale al dato paleografico. Si spiegano così la scarsa simpatia riscossa da Lindsay in ambito anglosassone (caratterizzato da una tendenza ‘interventista’) e invece la stima da parte di illustri filologi continentali e soprattutto italiani del secolo scorso, fra i quali Sebastiano Timpanaro, che definì «esemplare» il Marziale di Lindsay pur ritenendo i meriti del linguista e paleografo superiori a quelli dell’editore. Sta di fatto che ancora oggi il Marziale oxoniense rimane l’edizione di riferimento, da utilizzare insieme alla teubneriana di Heraeus (1925), assai felice nelle scelte testuali, e ai più recenti commenti a singoli libri.
Per finire in tono con il genere epigrammatico, cioè col veleno sulla coda, questo il giudizio (a mio parere un po’ meno lusinghiero di quanto si ritenga di solito) sul Marziale oxoniense da parte di Alfred E. Housman, geniale e sulfureo paladino della critica testuale nel suo più alto senso: secondo il filologo britannico, scomparso a Cambridge nel 1936, si tratterebbe di «un tale dono per l’umanità che i suoi difetti devono essere perdonati. Tutto quello che l’energia poteva realizzare nella ricerca dei manoscritti, e tutto quello che la competenza e l’industriosità potevano ottenere nel collazionarli, è stato realizzato e ottenuto, e i frutti di questa fatica sono depositati in un denso apparato critico della più ammirevole lucidità. È vero che ci si è trovati costretti a costituire da soli il testo, ma senza il lavoro di Lindsay ciò non sarebbe stato possibile».
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