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Steinberg, dal motto di spirito al paradosso visivo

Steinberg, dal motto di spirito al paradosso visivoSaul Steinberg, "Senza titolo", 1959-’62 © The Saul Steinberg Foundation / ARS New York

Alla Triennale di Milano, "Saul Steinberg. Milano New York", a cura di Italo Lupi, Marco Belpoliti e Francesca Pellicciari Scrittore con la matita, sociologo ironico, Steinberg torna nella sua seconda città, Milano: la prima fu New York, nei suoi riti tribali. Con acutezza di ebreo espatriato colse anche le realtà più sinistre

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 21 novembre 2021
Saul Steinberg al tavolo di disegno nella sua camera sopra il bar Il Grillo, Milano, anni trenta

 

«Evitare la noia è uno dei nostri scopi più importanti». Cosi diceva Saul Steinberg, lo straordinario artista al quale la Triennale di Milano (Saul Steinberg Milano New York, fino al 13 marzo) rende omaggio in un percorso espositivo che fa propria l’affermazione del protagonista. La mostra infatti (progetto di allestimento a cura di Italo Lupi, Marco Belpoliti e Francesca Pellicciari, con Ico Migliore e Mara Servetto) ci accompagna tra le oltre 350 opere in un grande coinvolgimento emotivo, senza mai perdere il filo dell’ironia, aiutandoci, con testi esaustivi a latere di ogni sezione, a entrare nel mondo steinberghiano. Un’esposizione ricca di disegni a matita, a penna, oggetti/scultura, tessuti, collages, accompagnati da una selezione ampia di lettere, fotografie, manoscritti di amici (Le Corbusier, Gio Ponti, Aldo Buzzi sono solo alcuni), che raccontano la stretta vicinanza dell’artista alla compagine intellettuale del Novecento .
L’opera di Steinberg esprime notevole complessità, quasi a voler smentire la semplicità del suo principale mezzo espressivo, cioè la linea. Dice Italo Lupi: «La narrazione di Steinberg effettua un continuo spostamento dal piano linguistico a quello semantico, dal motto di spirito al paradosso visivo», sconfinando sempre in due aspetti dell’espressione umana, la parola e il disegno. Ne parla lo stesso S. in una conversazione del 1967 con lo storico dell’arte Pierre Schneider: «sono uno scrittore: disegno perché l’essenza di uno scritto riuscito è la precisione e perché il disegno è un modo di espressione preciso». L’accostamento ardito tra disegno e poesia, disegno e scrittura, non deve stupire perché sta a indicare l’originalità dello spazio in cui l’artista si è espresso. Originale come la sua stessa biografia conferma.
Steinberg nasce da genitori ebrei il 15 giugno 1914 in una cittadina vicino a Bucarest, dove nel 1932 inizia a seguire all’università prima i corsi di filosofia poi di architettura. L’antisemitismo è alle porte, il giovane studente lascia la Romania, parte per Milano, si iscrive alla facoltà di architettura al Politecnico. Importantissimi gli anni milanesi, gli incontri con Lattuada, Zavattini, Buzzi, la collaborazione con il bisettimanale umoristico «Bertoldo». Ma anche in Italia l’essere ebreo non lo aiuta. Laureato in architettura, dopo varie vicissitudini, riesce a partire per l’America, trascorrendo un anno a Santo Domingo in attesa del visto. Lo ottiene nel 1942, un anno dopo viene arruolato come Ufficiale di Marina e ha la cittadinanza americana. Assegnato ai servizi di Intelligence, Steinberg si sposta su molti fronti di guerra, Cina, India, Nord Africa, Italia. Della sua produzione di quegli anni dirà, in una celebre intervista a Sergio Zavoli nel 1967, «durante la guerra mi trovai nella condizione di diventare invisibile, l’uniforme mi nascondeva, osservavo ogni cosa, nessuno vedeva me ma io vedevo tutti». Cosi si chiarisce meglio la fascinazione di Steinberg per le maschere «che mi proteggono dagli altri».
La sua storia di artista è ormai segnata. Nessun disegnatore americano di quegli anni può vantare una formazione così eclettica e multidisciplinare, unita al suo indubbio talento, che porta con sé la triplice identità di romeno, italiano, americano. New York diventa la sua città, che lo accoglie negli ineludibili riti tribali come il baseball, lo shopping, i party. Steinberg in quegli anni non vi si sottrae, li guarda e li descrive come un antropologo. Poi, negli anni settanta, la sua percezione di New York cambierà. E senza firmare manifesti e appelli contro la guerra in Vietnam, ne disegnerà la violenza mettendo in mano a Mickey un revolver e a Minnie una mitraglietta.
Nel 1954 torna a lavorare in Italia e su richiesta di Enrico Peressutti, Ludovico Belgioioso e Nathan Rogers partecipa per la X Triennale al progetto dei tre architetti (Studio BBPR) del Labirinto per ragazzi, realizzato nel parco Sempione, consolidando il suo legame professionale e affettivo con Milano. E nucleo fondamentale della mostra sono proprio i quattro disegni preparatori per il Labirinto, ciascuno composto da una striscia di carta piegata a fisarmonica: i quattro leporelli rivelano molti dei temi e dei segni artistici che caratterizzeranno sempre il pensiero creativo di Steinberg. Prima di tutto la linea, la cui semplicità, ingannevole, consente all’artista di raccontare la complessità del mondo e delle molteplici umanità. E chi meglio di lui allora avrebbe potuto avvicinare i bambini più piccoli e i ragazzi all’arte, senza che questa diventasse un fatto astratto e intellettualistico ma piuttosto uno scambio emotivo sincero e diretto? A integrare i documenti del progetto architettonico del Labirinto si aggiunge in mostra il Mobile di Alexander Calder (dalla GAM di Torino), a testimoniare la presenza di un altro Mobile, al centro del Labirinto originario, nel parco milanese.
Uno dei temi principali indagati dal segno di Steinberg e molto ben rappresentato nel percorso in Triennale è la relazione tra architettura e potere. Negli anni milanesi l’artista avrà spesso alzato lo sguardo sulla facciata del Palazzo di Giustizia, che assumerà nei suoi disegni americani una valenza simbolica, una sorta di archetipo che si ritrova nei suoi innumerevoli edifici istituzionali: un’aura sinistra li avvolge, la facciata rigida e aggressiva nasconde il potere, senza anima. La sensazione di essere braccato dalla «imponenza» totalitaristica non lo lascerà mai. Ma il segno/disegno di Steinberg non è solo di denuncia. Il suo occhio coglie ogni dettaglio, il suo talento ne sintetizza visivamente il significato. Come quando ci si ferma davanti al disegno di un incrocio di strade milanesi, dove è immediato riconoscere l’insegna di un caffè d’altri tempi, perfettamente riportato alla memoria di chi guarda. E negli anni settanta S. celebra i suoi ricordi di Milano con altri disegni: le architetture novecentesche si alternano ai luoghi più discreti intorno al Politecnico (per il titolo «Souvenirs /Cartoline da Milano», in mostra Via Ampère 1936, matita e matite colorate su carta del 1970). Dice lo stesso Steinberg: «… allora vedevo una cosa che non avevo mai visto, lo svegliarsi tranquillo e silenzioso di una città, gente a piedi, gente in bicicletta, tram, operai…». Meglio non poteva rivelare il suo affetto per la Milano di quegli anni.
Basterà fermare l’attenzione sulle copertine del «New Yorker» (in mostra alcuni esempi) per scoprire in che modo il disegnatore sappia registrare la verità di quella umanità che descrive. I testimoni di quella società sono delicati e sofferenti, pieni di ironia e immediatamente comprensibili. Il fil rouge del segno steinberghiano denuncia, ironizza, sorride e si rattrista per le cose del mondo, sottolineandone la, spesso, malinconica natura. Come scrive Marco Belpoliti, nel volume da lui curato insieme a Gabriele Gimmelli e Gianluigi Ricuperati per «Riga» (ora ripubblicato da Quodlibet), «Steinberg, a differenza di molti suoi colleghi, è un artista “sociale”: sociologo della vita quotidiana, impietoso descrittore dell’America e della società umana in generale. Fa critica sociale mentre diverte, ci fa capire i paradossi visivi mentre fa dello humour». Nella conversazione che Emanuel Litvinoff (scrittore britannico di origine ebraica) ebbe nel 1952 con S. ritorna prepotente il tema dello humour con preciso riferimento alle figure femminili: «… la donna steinberghiana. Per chi non la conoscesse è una creatura ridicolmente regale, corazzata, che sfodera una macabra artiglieria sessuale…». Eppure, se ci si sofferma davanti a Woman Seated (1950-’51), la leggiadria delle gambe accavallate che stemperano i prepotenti tacchi a spillo mentre la cotonatissima coiffure della signora è illuminata dal paralume in tessuto e merletti – arredo cult degli anni cinquanta – riportano una sorridente, quasi benevola ironia dell’autore. Non nasconde mai il proprio divertimento Steinberg, né a fronte della complessità degli abiti femminili – corsetti, guaine, busti – né nel portare in scena l’irresistibile pomposità in ogni sua forma, umana e sociale.
Visitare la mostra è come sfogliare un libro: senza soluzione di continuità, la complessità estetica e umana di Steinberg si dipana e si declina in mille sfaccettature senza inciampi. Ne è plastica dimostrazione il volume-catalogo Steinberg A-Z (ed. Electa), organizzato come un’enciclopedia contemporanea, dove il curatore Belpoliti ri-compone, insieme a numerosi critici, storici, artisti, lo sconfinato puzzle dell’universo steinberghiano.

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