Stefano Raimondi, la parola come testimonianza presente e futura
Stefano Raimondi, poeta milanese, è facile incontrarlo in giro per la città: seduto su una panchina del Parco delle Basiliche, al sole o nel freddo, o al tavolo di un bar – in ogni caso spesso intento a leggere o a scrivere. Non ancora sessantenne, al suo attivo ha molte raccolte, da quando era solo poco più di un ragazzo: da Invernale, pubblicata nel 1999 da Lietocolle, a La città dell’orto, pubblicato originariamente da Casagrande e poi di nuovo, di recente, da La vita felice, fino a Il mare dietro l’autostrada (Lietocolle, 2005), Interni con finestre (La vita felice, 2009), Per restare fedeli (Transeuropa, 2013) e alle prose poetiche di Soltanto vive. 59 monologhi (Mimesis, 2016), per arrivare a Più che sinceri (Zacinto edizioni, pp. 40, euro 8). Ma non è solo un poeta, Raimondi, è anche un saggista e un critico letterario che ha scritto testi preziosi sul silenzio oppure sulla poesia di Vittorio Sereni e di René Char.
Tutto si tiene, in lui, perché in effetti nei suoi versi le voci di Sereni e di Char si sentono forti: provengono da quel medesimo retroterra, assunto sentimentalmente prima ancora che culturalmente, dal quale sembra provenire l’eco – su tutti – di Celan e di Jabés (che peraltro, a loro volta, esploravano incessantemente le profondità del silenzio).
NEI SUOI VERSI e nella sua visione del mondo, «parola» e «vita» non sono disgiunte l’una dall’altra. Quest’ultima è sempre eccedente rispetto alla prima, e forse nessuno meglio del poeta ne è consapevole, e se ne dispera. È proprio Celan a definire disperata la condizione del poeta, il quale sa che la sua parola non potrà mai corrispondere alla vita: e tuttavia non per questo rinuncia a pronunciarla.
Più che sinceri è poco meno o poco più di una lettera a un figlio appena nato, un discorso a futura memoria, una testimonianza, o una preghiera laica. A volte sono poesie in versi vere e proprie, altre prose poetiche: un tentativo, lungo tre anni (perché questo è il tempo che corre nel libro fra il primo e l’ultimo testo, come se non si trattasse neppure di una raccolta ma di un diario tout court), di trovare le giuste nominazioni. Vale a dire, le parole nelle quali un giorno il figlio potrà riconoscere il padre, e dentro quella epifania ritrovare il senso del proprio essere al mondo. E dovranno essere parole precise ma aperte al tempo stesso: esatte come richiede la poesia, aperte come inevitabilmente lo è la vita.
«TI HO CONCEPITO in ottobre quando il freddo spalanca il respiro»: è così che inizia il libro, che il discorso prende avvio. Il figlio non è ancora nato ma il padre gli sta già parlando: e nel frattempo interroga il proprio sé. Contare i giorni, recita una poesia di Giovanna Rosadini, è anche un ripassare a memoria se stessi, e se si vuole è questo che sembra fare anche Raimondi, qui: un ripasso della sua identità, in nome del figlio che verrà. Ma non per chiuderlo in una storia già scritta, bensì al contrario per lasciargliene una da rinnovare e da scrivere daccapo, semplicemente rimanendogli accanto: «Le storie stanno dove si raccontano», leggiamo infatti in una delle pagine più belle, «nel loro modo acuto di restare/tra le parole: nel loro rimanere vicino/al vero, al sogno di qualcuno». In realtà il padre non ha niente da insegnare, anzi: lui per primo ha da imparare molte cose; e se parla non è per imporre verità già date, come leggiamo altrove: «È da qui che chiamo per chiamarti/che vedo e non sono io il vero, ma tu/che mi continui intorno/senza linea, né cerchio/senza punto».
RAIMONDI, INSOMMA, attribuisce alle parole in quanto tali un valore assoluto di testimonianza, e lo afferma esplicitamente: «Ci sono parole testimoni, parole/ passate di mano in mano/ con il fiato rotto solo/ dalle promesse». Alla fine del libro, quando il figlio nel frattempo è già nato, vediamo il padre seduto e poi sdraiato di fianco a lui e lo sentiamo, ancora una volta, parlare – «piano piano», «calmo».
È una scena che potrebbe riassumere e comprendere tutte quelle precedenti, proprio per la imperturbalità formale – non meno che sostanziale – che la pervade, nell’andamento come nei contenuti: «Ti spiego adesso quel che so./ Adesso che sono io più avanti/ che sono già finito tra gli sbagli/ fatto come sono di tempo, di ore e di minuti./ Lo stesso che viene perdonato/ forse troppo tardi o troppo presto/ per la scena, ora/ che sono sdraiato qui vicino a te/ e non è una spiaggia questa e neppure/ un prato questo scuro d’assi, questo/ silenzio che forse non capisci/ o non capirai mai». E queste sono le ultime parole, alle quali potrà fare seguito solo la vita: «Ti spiego adesso come fare a non aver paura./ Amleto aveva un’ombra e un muro/ e vicino Ofelia stordita d’acqua:/ cemento contro melanconia».
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