«La necessità di questo progetto è legata all’inquietudine del reale. Per me le cose, gli oggetti, la loro forma, nascondono qualcosa che mi inquieta» ci dice Stefania Tansini quando la incontriamo a Santarcangelo, in un’afosa giornata di metà festival. La sera prima la danzatrice è andata in scena con L’ombelico dei limbi, un solo da lei coreografato ispirato all’omonimo testo giovanile di Antonin Artaud.

La pubblicazione, avvenuta solo di recente in italiano, è del 1925 e fa parte della «fase surrealista», si tratta di un testo composito di versi, prosa e lettere. In un’edizione di Santarcangelo decisamente incentrata sulla danza – la cifra, da tre anni a questa parte, del direttore Tomasz Kirenczuk – il lavoro di Tansini spicca per la radicalità della presenza, per la composizione non didascalica pensata su pieni e vuoti, e per il rapporto antigerarchico, di co-esistenza, con uno spazio evocativo come l’ex cementificio Buzzi, ridotto a una rovina dopo la chiusura.

Tansini, nata nel 1991 in provincia di Piacenza, ha lavorato come danzatrice con tanti – da Simona Bertozzi a Romeo Castellucci, fino alla recente collaborazione con Motus – ma sempre più negli ultimi tempi si è dedicata alle proprie coreografie. Un percorso che due anni fa è stato coronato con l’Ubu per la migliore attrice/performer under35. L’ombelico dei limbi sarà in tournée in autunno, con repliche a Romaeuropa e al Festival delle Colline torinesi.

Questo lavoro è ogni volta un site specific, si adatta al luogo in cui lo presenta. In che modo?

Durante il processo creativo avevo iniziato a lavorare sul palco, col classico tappeto per la danza di linoleum. C’era una struttura, un’elaborazione teorica, ma sentivo che il pezzo non funzionava. Allora mi sono spostata sulla gradinata del pubblico. Sono processi che si ricostruiscono a posteriori, in quel momento è sempre il corpo che decide. Il mio ruolo, credo, sia mettermi in ascolto della strada che il corpo indica. Non è nulla di magico o metafisico, è qualcosa di molto concreto anche se difficile da definire a parole. Forse è una sorta di istinto, come quando la volpe decide di fare la tana da una parte piuttosto che un’altra, per tutta una serie di ragioni che però non sono razionali. Quando non ci sono i parametri giusti, sento che qualcosa impedisce al corpo di essere se stesso: può essere una luce, una musica, qualsiasi elemento del contesto. Tornando a L’ombelico dei limbi, credo che avesse ragione lui, il corpo, nell’indicarmi uno spazio diverso, un luogo più scarnificato. Mi sono detta: togliamo il linoleum, la tenda, portiamo tutto all’osso e facciamo affiorare le dinamiche che il luogo, ogni volta, offre. Qui a Santarcangelo abbiamo visto tanti spazi prima di scegliere l’ex cementificio Buzzi, con la vista sulla grande rovina industriale e la natura, che c’è ma rimane fuori. Un luogo molto concreto, dove in un determinato momento il corpo può vivere.

La questione della «presenza» sembra centrale per lei: non si tratta di «fare qualcosa» sulla scena, ma di «essere».

È un altro grande tema di questo lavoro: la non rappresentazione. Anche se c’è un percorso fissato, il mio lavoro da interprete è avere un’attenzione verso la materia che mi dice come stare, se andare o rimanere. Si tratta di non perdere quella cosa che ci avvicina, perché non rappresenta altro. Come far aderire il corpo al corpo, in una scrittura coreografica con un andamento? I segni non sovrascrivono la natura del gesto, corrono paralleli in modo da farlo rimanere scarno, scarnificato. Questo lavoro per alcuni è molto «crudo»: c’è solo un corpo. Ma è un corpo che sta nel corpo in quel momento, e non credo sia poco.

Parliamo del testo, come si è ispirata a Artaud?

L’ho incontrato quando ero alla Paolo Grassi, quelle letture sono esperienze che non scordo, sono testi rivoluzionari. Dieci anni più tardi, poco dopo il Covid, è stato tradotto in italiano L’ombelico dei limbi, in cui direi che non c’è niente di intellettuale: sono materiali che aderiscono fisicamente, dei germi su cui potevo lavorare. Ho scelto questo testo così «sgarrupato» da un punto di vista letterario ma che credo fosse molto adatto per quello che volevo fare. Sicuramente in questo spettacolo ho tradito Artaud in molti modi, però non ho tradito quella sensazione che c’è all’interno delle sue parole e che respiravo ogni volta che chiudevo i suoi libri. Una sensazione che definirei di un vitalismo disarmante.

Vincere l’Ubu che peso ha avuto per lei? L’ha spinta a dedicarsi di più ai suoi progetti, piuttosto che a lavorare per altri artisti?

Sicuramente mi ha fatto piacere vincerlo, sarei ipocrita a dire il contrario. Credo però che dare più spazio al mio percorso da coreografa prescinda dall’Ubu. Forse il premio più che spostare me ha spostato gli sguardi degli altri su di me.

Come vede l’ecosistema della danza in questo momento?

Mi piacerebbe se venisse scardinato il dogma della danza come materia di nicchia. Io ne sono innamorata e un po’ mi dispiace che per il sistema siamo sempre l’ultima ruota del carro, nel momento in cui lavorare sul corpo richiede moltissimo. In questo c’è un grande gap, tra l’impegno necessario e le possibilità che si hanno di mostrare il proprio lavoro.