Stefania Alos Pedretti, nell’«oscurità» di Stromboli ascolto l’eco del mondo
Intervista L'artista e performer racconta «Embrace the darkness», il lavoro nato sull’isola ferita dal fuoco. Un rituale potente tra musica, video/art, installazioni sulla montagna
Intervista L'artista e performer racconta «Embrace the darkness», il lavoro nato sull’isola ferita dal fuoco. Un rituale potente tra musica, video/art, installazioni sulla montagna
Notte. Terrazzo en plein air. Su un grande schermo si susseguono splendide immagini macro di mare, lava, cielo, terra bruciata. A fare da sfondo a questo insolito palco naturale, la montagna dello Stromboli, immersa nel cielo stellato di settembre. Adesso l’aria è placida, ma su tutta l’isola bruciano ancora le ferite dello spaventoso incendio di maggio e dell’alluvione di agosto che ha portato via intere case.
La sciamana Stefania Alos Pedretti indossa un abito scuro con un drappo rosso al collo. Sonagli alle caviglie, lunghissimi dreadlocks sciolti, si muove sinuosa al centro dello spazio tra consolle e pietre laviche. Suona pezzi di vetro, bisbigliando parole incomprensibili come un’atavica preghiera. La litania presto si trasforma in un grido straziato, rumore tellurico, cadenzato ed elettronico, che evoca esplosioni, tuoni, fiamme, devastazione, dolore. Poi si placa, in un flusso naturale di energia che si trasforma, come in un rito catartico.
Embrace the darkness chiude «Marosi, back to the roofs», festival multidisciplinare di arti performative (29 agosto- 4 settembre) sull’isola di Stromboli, alla sua quarta edizione.
PRESENTATO in anteprima a luglio alla Fondazione Lenz di Parma (che l’ha coprodotto assieme a Marosi), come tutte le performance ospitate dal festival, Embrace the darkness è stato pensato per questo luogo: gli eventi recenti hanno fortemente influenzato il processo di creazione. «Sarei dovuta venire prima ma per motivi di salute non mi è stato possibile. Doveva essere un lavoro invernale invece è stato estivo, doveva esserci più tempo per digerire, invece è stato tutto molto viscerale: è venuta fuori una ’fotografia sonora’ dello stato dello stato dell’isola di cui sono felice».
Stefania Pedretti, 46 anni, nasce artisticamente alla fine degli anni ’90 nella sperimentazione vocale e performativa delle Allun, gruppo punk no wave di Vigevano. Con Bruno Dorella fonda gli Ovo, duo indie noise rock di cui sta per uscire il decimo disco.
Negli anni si è occupata della curatela musicale di festival come Santarcangelo o il Degender Fest di Bologna. Da oltre dieci anni ha un progetto in solo (?Alos) con cui attraversa in maniera libera diverse forme artistiche e generi espressivi. «Con le Allun eravamo piccole e naif, le nostre esibizioni già allora erano delle performance cangianti. Penso che il vissuto sia un atto politico. Sono queer, vegana, ecologista: quello che porto a livello artistico cerco di trasmetterlo il più coerentemente possibile nella vita personale, e viceversa. Non supporto molto le categorie, anche nella musica. ?Alos è nato nel 2003 come progetto performativo, quel punto interrogativo mette in crisi il ’solo’ perché in realtà c’è sempre qualcuno che mi accompagna. Parto sempre da ricerche che prendono forma dall’immagine, poi arriva la parte sonora. Così è successo anche per Embrace the darkness».
Il lavoro prosegue un percorso sui rituali iniziato con The caos awakening nato su una montagna di Reggio Emilia: uno scavo emotivo ed estetico che trascende i confini fra le arti performative, integrando musica sperimentale, performance, improvvisazione, arte figurativa, istallazione e video/art. Questo nuovo rito dedicato a Stromboli, tra fotografia, sonorizzazione di rumori ambientali e attraversamento corporeo dello spazio, è molto potente. (Ri)suona come un’invocazione allo spirito della montagna ferita; al contempo, è un grido generazionale contro i suoi aggressori. Da Stromboli si riverbera al resto del nostro mondo ammalato da troppa antropizzazione.
«SONO sbarcata sull’isola una settimana dopo l’incendio. Non ci ero mai stata. Pensavo che quello che vedevo arrivando dal mare – e cioè un triangolo arso e nero – fosse il suo aspetto solito. Ma attorno a me, in nave, c’erano persone con le lacrime agli occhi. La prima parte della residenza è stata un’esplorazione: grotte, vulcano, terra e mare. Eravamo in quattro (Francesca Morello e Marcello Battelli audio, Giulio Di Mauro foto, video, montaggio). Abbiamo fatto foto e registrazioni, ho esplorato la voce e il suono degli oggetti, della montagna, delle rocce. Ho cercato di dare voce a ’Iddu’. Mi sento una portavoce ’involontaria’ della natura. Per abbracciare l’oscurità bisogna essere in pace col proprio lato oscuro, non negarlo. Tutto il mio lavoro è sull’oscurità: fa parte della vita. Volevo cercare di focalizzare il rituale sugli elementi: a Stromboli tutti gli elementi sono presenti al loro apice. È un luogo che ti fa sentire quanto sei piccolo».
Dopo gli eventi tragici di questi mesi, Stromboli è un’isola mutilata. Chi era presente quella notte di maggio ha ricordi drammatici, difficili da raccontare. «È stato come un incendio della savana. Gli animali e gli uccelli, per scappare alle fiamme, si sono rifugiati nelle case subito sotto la montagna. Siamo riusciti a fermare il fuoco a mani nude, aiutandoci l’uno con l’altro», racconta Salvo, ragazzo cresciuto sull’isola, che aggiunge: «Quello che è successo è la conseguenza del fatto che da troppo tempo non si ha rispetto della montagna». «L’uomo – dice l’anziana signora Pina – ha fatto più danni di quanti ’Iddu’, il vulcano, non ne abbia mai fatti da quando ho memoria». Fuori, sul «continente», forse non ci siamo resi conto della portata della tragedia che ha colpito questo paradiso in terra, che in fin dei conti non ci meritiamo.
«IL LAVORO – continua Pedretti – verte molto sulla critica verso l’essere umano che si sente un dio e ha preso il sopravvento sugli altri esseri viventi. Questo tipo di essere umano deve essere criticato in questo periodo. È tempo di altro. Di un mondo nuovo che sia più in dialogo col passato: non in senso nostalgico, ma come presa di coscienza di qualcosa che esiste da sempre. Chiamalo come vuoi: archetipico, arcaico, ancestrale. Riconnetterci con qualcosa che abbiamo dentro e che ci deve portare ad avere un nuovo profondo rispetto per la natura».
Dal materiale raccolto durante le residenze, scaturiranno anche altre «restituzioni», sonore e visuali. «Per le prossime messe in scena, vorrei tenere tutte le possibilità aperte: c’è la struttura con dei punti fermi ma – uso un termine che oramai è diventato una scatolina da riempire – vorrei mantenere una fluidità. Non voglio vendere un prodotto, ripetere ogni volta la stessa roba, voglio rimanere in dialogo con il luogo in cui lo farò, scoprirne i limiti o pregi, ri-ragionarci ed emozionarmi. Ogni volta in modo diverso».
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