Stefan Zweig era un ‘beniamino degli dei’ per tempi inquieti: ricco, famosissimo, con una visione del mondo rassicurante e un tedesco ancora ‘classico’ ma modulato sui timbri del «moderno nervosismo». Fino alla svolta del 1933 poteva vantare una lunga serie di successi. La sua è la storia ebraica di commercianti che diventano intellettuali, si avventurano senza timore tra le pieghe della storia e della mente e cercano di appropriarsi di una tradizione che diventerà loro solo in parte. Zweig, il decadente, allestisce a suo gusto una quadreria di personaggi illustri dell’Occidente che tanto ama. Sono re e santi, poeti, medici e maghi, esploratori o astuti politici che beccheggiano impotenti– come del resto tutte le sue figure – tra passione e destino.

All’apice del successo decise di lasciare Vienna, troppo moderna e trafficata, per ritirarsi tra begli oggetti in un castelletto della provinciale e cattolicissima Salisburgo. Poi, con l’avvento del Nazismo, la ‘distanza’ divenne necessità e, lentamente, approdo. Abbandonò l’Austria prima dell’Anschluss, vagò tra Inghilterra e America con qualche breve ritorno e, quando la nave Uruguay attraccò a Rio de Janeiro, nell’agosto del 1941, Zweig pensò di avere spezzato definitivamente i legami con un Occidente che stava cambiando troppo in fretta. «Considero perduto ogni mio bene – scrive a Hanna e Manfred Altmann – (…) nessuno ha idea di quali enormi cambiamenti economici produrrà questo conflitto, anche l’America sarà un paese diverso dopo la guerra».

La scelta dell’inglese
Pochi mesi dopo, nella introduzione di una delle più belle memorie del primo Novecento, Il mondo di ieri, giungeva a sostenere di non avere più una patria: «Non possiedo più, dunque, un posto nel mondo e ovunque mi sento uno straniero o tutt’al più un ospite».

In Brasile mise in atto l’erosione sistematica del suo vecchio mondo corteggiando con consapevolezza oscillante il nulla. Si sottrasse agli onori, evitò di incontrare i conoscenti e i suoi molti e appassionati lettori, si rifugiò in una improbabile località di villeggiatura a settanta chilometri da Rio de Janeiro: «Qui viviamo dimenticati e dimenticando il tempo e il mondo (ma non voi)», scrisse alla famiglia da Persepolis. In un percorso di esilio personalissimo abbandonò i valori umanistici di una vita, insensibile al romanticismo nostalgico ma anche privo della libertà che Edward Said avrebbe attribuito all’esule, quando giunto in una nuova terra tende a sfuggire al passato, alla sua storia, a sé stesso.

Le lettere dall’esilio di Stefan Zweig e della seconda moglie Lotte Altmann, raccolte con una lunga ricerca da Darién J. Davis e Oliver Marshall, La vita stessa è già tanto in questi giorni Ultime lettere dall’America (traduzione di Massimo Ferraris dalla seconda edizione americana del 2017, Castelvecchi, pp. 288, e 17,50) offrono una eccezionale testimonianza su questi anni, dall’arrivo di Zweig a New York, nel 1939, fino ai mesi trascorsi a Persepoli dove morirà suicida nel 1942.

Apparse in Italia a ridosso dell’anniversario della scomparsa dell’autore austriaco, queste ‘ultime lettere’ illuminano anni di vita segregata di un intellettuale sfuggente nonostante la proverbiale generosità di aiuti, contatti e testimonianze – quel «mistero Zweig» al quale Dominique Bona ha dedicato la sua empatica biografia.

Scritte in inglese per sfuggire ai controlli della censura, ma probabilmente anche per segnare la lontananza dalla patria ‘tedesca’, integrano di notizie e sentimenti lo scarno epistolario di quei mesi in cui signoreggia volitiva e non sempre affidabile la prima moglie Friderike. Contengono comunicazioni ‘private’, gentili, spesso formali, a tratti lamentosi, destinate soprattutto alla famiglia di Lotte Altmann e hanno il pregio di restituire «una visione intima di Stefan Zweig e un ritratto vivace della moglie», la giovane segretaria borghese ed ebrea che, nelle ricostruzioni, appare come ombra fedele del poeta e che acquista invece in queste lettere i contorni di una personalità e di un progetto.

Vizi brasiliani
Composte spesso a quattro mani, raccontano con garbato riserbo storie minute di cucito e cucina, di entusiasmo per la bellezza della terra e per la semplicità del nuovo stile di vita; accennano alla situazione politica, parlano del timore di invecchiare, di libri, di cura, di fuga da quella che Romain Rolland aveva chiamato «religione dell’amicizia», e che aveva caratterizzato le sue relazioni fino all’ultimo approdo; segnalano inoltre i repentini sbalzi d’umore di lui, l’asma di lei, le consolazioni e il senso di vuoto in quel luogo in cui si erano rifugiati per sottrarsi al mondo: «Non mi sono mai trovato in uno scenario bello come qui in Brasile, e la gente è davvero gentile; l’anno scorso ci hanno viziato e quest’anno, dato che abbiamo detto a tutti che vorremmo lavorare, ci lasciano totalmente in pace».

Su tutto domina l’interrogativo sul suicidio con cui si conclude la esistenza degli Zweig. Lo sottolineano i curatori nella lunga introduzione, le recensioni alle molte edizioni del testo, le due lettere di amici ‘brasiliani, Ernst Feder e Ferdinand Burger che, in appendice al volume, cercano di spiegare agli Altmann i motivi di quel gesto disperato e incomprensibile. Lo insegue inevitabilmente anche il lettore, attirato nella quotidianità un po’ opaca delle pagine dai segni che annunciano la fine in una mise en abyme che incrocia questo epistolario di piccole cose con una storia tragica e coinvolgente dove si descrive il tramonto del mondo di ieri e le strategie di fuga di uno dei suoi protagonisti.