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Stefan Zweig, l’esteta pacifista

Stefan Zweig, l’esteta pacifistaOskar Kokoschka, «Gli emigranti», 1937

Carteggi letterari In conflitto con l’immagine del conservatore raffinato e schivo, che lo scrittore austriaco ha tramandato di sé, le inedite «Lettere sull’ebraismo» lo rivelano «uomo del fare»: da Giuntina

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 17 dicembre 2023

Dalla tranquillità americana, Hannah Arendt accusava Stefan Zweig di non aver combattuto il nazismo e di non aver difeso il suo popolo negli anni più bui: «Nessuna delle sue reazioni durante tutto questo periodo è stata il risultato di convinzioni politiche; erano tutte dettate dalla sua ipersensibilità all’umiliazione sociale». Aveva letto da poco la sua autobiografia, Il mondo di ieri del 1942, e la usava per addossare a quell’aristocratico umanista – e a intellettuali impolitici come lui – il disastro della civiltà e dell’ebraismo: «Se gli ebrei dei paesi dell’Europa occidentale e centrale avessero mostrato anche un minimo di preoccupazione per le realtà politiche dei loro tempi, avrebbero avuto ragioni sufficienti per non sentirsi sicuri».

Eppure, fin dagli anni giovanili Zweig aveva affrontato con ondivago impegno temi ebraici, disegnando comunque nella sua galleria di personaggi figure di israeliti capaci di opporsi alla guerra, alla violenza, al crescente imbarbarimento della vita civile e politica. Certo, lo scrittore viennese non era un ebreo della legge e non aveva alcuna predisposizione per il legalismo rabbinico, esattamente come anche per l’oriente chassidico che Buber stava sdoganando. «Come la maggior parte degli austriaci – scrive nel 1942 al rabbino di Petropolis – sono stato educato in modo molto lasso in materia di fede e non potrei dominare un sentimento di insicurezza in una congregazione di veri credenti».

Non era neppure sionista, malgrado alcune interessanti oscillazioni che Mark Gelber ha messo recentemente in luce  – in particolare, in Stefan Zweig. Ebraismo e sionismo nel 2014 – e gli incerti ripensamenti negli anni bui delle persecuzioni. Amava Herzl, scrittore e politico,  eppure per lui il contributo dell’ebraismo alla modernità era l’universalismo nato dalla diaspora e quel bagaglio etico che aveva ostinatamente portato con sé: «Il nostro spirito è spirito del mondo – scrive  a Scherlag nel 1920 – per questo siamo diventati quello che siamo e, se ne dobbiamo soffrire, questo è il nostro destino». Ebraica era per lui, nietzscheanamente, l’opposizione spirituale che viene dal dolore, ebraico il viaggio verso conoscenze inesplorate e, soprattutto, la incoercibile vocazione alla libertà.

Hannah Arendt in realtà conosceva poco di quello scrittore così famoso: non era una lettrice fedele delle sue opere, nulla sapeva degli interventi ‘politici’ pronunciati da lui contro il nazismo che  Stephan Rasch ha pubblicato solo recentemente,  né aveva idea  che Zweig  si fosse confrontato con impegno su temi ebraici scrivendone nel corso degli anni a numerosi corrispondenti.

Sono  140 le lettere «ebraiche» di Zweig, un numero minimo rispetto allo straripante epistolario di oltre 25.000 lettere e cartoline che solo in una piccolissima parte sono state pubblicate. Le ha selezionate  Stefan Litt per una edizione tedesca del 2020 che,  parca di note e spiegazioni, ha il pregio di mostrare uno Stefan Zweig inedito, in conflitto a volte con l’immagine di raffinato ed equilibrato  conservatore, schivo e, sostanzialmente, apolitico che lui stesso ha voluto tramandare. Il curatore ne sceglie 120 (con qualche lacuna per gli anni giovanili) che  Giuntina ora propone per la impeccabile traduzione di Francesco Ferrari – Stefan Zweig, Lettere sull’ebraismo a cura di Stefan Litt (pp. 360, € 20,00).

Sono lettere che accompagnano fedelmente gli snodi della vita di Zweig, le sue «three lives» come affermava in una intervista newyorkese del 1940. All’inizio c’è la Vienna asburgica, idealizzata e banalizzata nella autobiografia come  regno di una pacifica e sicura convivenza. Poi l’orrore della Prima guerra mondiale  e l’esasperato nazionalismo che Zweig  combatte mettendo al centro quella fabbrica di passioni e pensieri che sono gli individui e diventando uno degli autori più letti e tradotti di sempre. Un terzo, difficile periodo, inizia con la presa di potere di Hitler in Germania e si conclude con il misterioso suicidio a Petropolis nel 1942. Zweig si allontana allora progressivamente  dall’Austria per una vita errabonda, accompagnata da successi e inquietudini: attraversa il continente, cerca rifugio in Inghilterra  e al di là dell’Oceano, mentre l’Europa in cui credeva veniva smantellata pezzo dopo pezzo e la tolleranza cancellata dal vocabolario degli invasori: «E mi fu chiaro: ancora una volta che il passato era morto, il lavoro compiuto distrutto, l’Europa, la nostra patria per la quale avevamo vissuto, era distrutta e per un tempo che andava ben al di là della nostra vita. Si iniziava qualcosa di nuovo, un’altra epoca, ma quanti inferni e quanti purgatori conveniva attraversare per giungere sino a lei!».

Dalle pagine collazionate da Litt emerge per ogni fase della vita di Zweig una immagine inedita, come se il tema ebraico mettesse in discussione le sue certezze e trasformasse a tratti un esteta in un «uomo del fare» dalla forte sensibilità politica, impegnato in progetti che non si realizzeranno e in un esasperato dialogo interiore su abissi e predestinazione. Sappiamo così di iniziative mai conosciute, di  giudizi profetici, di battaglie quotidiane e di inattesi giudizi su uomini ed eventi.

Lettera dopo lettera, un anno dopo l’altro, vediamo cambiare le posizioni di Zweig. Da giovane, come gran parte degli scrittori israeliti che vivevano a Vienna nel fine secolo, marcava con attenzione la lontananza dal ghetto: aveva preso le distanze dalla osservanza religiosa e dalla formazione ebraica tradizionale senza per questo identificarsi con la cattolicissima società austriaca né rinunciare a una idea di predestinazione che lo portava a cercare un nobile scopo per la sua vita e la sua arte, nel solco di alcuni aspetti dell’ebraismo: attenzione ai valori, amore per la cultura, consapevolezza di appartenere a un popolo che ha preferito le sfide del deserto a una accettabile schiavitù. Poi, con lo scoppio della guerra, ebraismo e pacifismo diventano per lui sinonimi e Zweig completa un dramma profetico,  Jeremias, «la più grande resa dei conti poetica di un drammaturgo tedesco con il problema ebraico e con il problema del nostro tempo» comunica con fierezza a Buber.

Modernità ed ebraismo sono invece i protagonisti delle lettere scritte negli anni della precaria democrazia tedesca. Zweig guarda con timore alle idee rivoluzionarie dei suoi correligionari e allo spirito gregario dei ‘veri’ tedeschi: «Questi ebrei troppo umani – scrive a Jean-Richard Bloch nel 1920 – che, nei loro errori di valutazione riguardo al popolo tedesco, si abbandonarono al sogno idealista che si potesse trasformare un popolo militarista che conosce solo una gioia, quella di obbedire o di comandare in un popolo democratico».

Il nazismo non lo coglie impreparato. Le pagine raccolte da Litt dimostrano che Zweig era in grado di prevedere lucidamente quello che sarebbe accaduto: «Nessuna speranza – la partita è persa, per dieci anni a venire …non speriamo niente più. Ancora una volta saremo i vinti! Ma meglio questo che trionfare attraverso l’infamia!», commenta dalla ‘sicura’ Salisburgo nel marzo del 1933. Non lo inganna la tradizione classica tedesca, con il richiamo rassicurante a Goethe o Schiller, né la progressività delle misure del regime contro oppositori e non ariani. Per lui la questione ebraica e l’opposizione politica diventano inscindibili. E reagisce. Non solo scrive orgogliosamente Il candelabro sepolto e  due biografie di opposizione al regime, Erasmo da Rotterdam e  Castellio contro Calvino, ma scopriamo che  promuove strategie di difesa e salvaguardia per i perseguitati: si impegna a creare una rivista di intellettuali ebrei, finanziata insieme a Siegmund Warburg, stringe a sé gli amici per condannare con iniziative comuni il silenzio dei pennivendoli tedeschi, promuove un manifesto che non verrà mai pubblicato sperando di dare così vita a un «esercito dello spirito»: «Milioni di persone in tutti i paesi lo leggeranno e quanto più potente, più giusto, più chiaro, sarà scritto quanto meglio sarà. In esso noi dovremmo dire come abbiamo vissuto nella lingua tedesca, come l’abbiamo servita. Quanto lontano abbiamo portato la reputazione della letteratura tedesca nel mondo. E che per decenni abbiamo lavorato con i migliori tedeschi fraternamente, senza ostilità e nella più intima. coesistenza. Fino al 1933, quando i diciannovenni  ordinarono di scrivere in ebraico». Procurarsi la morte fu la sua ultima dichiarazione di una sconfitta che riguardava una intera generazione di intellettuali, ebrei e non solo.

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