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Stefan Hertmans, Storia e tetre pulsioni

Stefan Hertmans,  Storia e tetre pulsioniGustave De Smet, «La barca da diporto», 1925

Scrittori dal Belgio Dalle umili origini, aggravate da una menomazione congenita, all’arruolamento nelle SS: «L’ascesa» di un giovane fiammingo ricostruita tra materiali d’archivio e invenzione, da Marsilio

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 18 dicembre 2022

Nell’anno 1568, quando tra la Spagna cattolica e l’Olanda protestante scoppiava la Guerra degli Ottant’anni, Bruegel il Vecchio ultimava La parabola dei ciechi: alcune figure vestite miseramente, bandite dalle città, procedono una a una incontro alla propria rovina, e non è chiaro se credano di trovarsi in un altrove, attratte da una luce impossibile, o se stiano per interrompere il loro cammino. Nei romanzi di Stefan Hertmans, in pieno Novecento, quei tratti così arcaici, inscritti da Bruegel nel panorama morale delle guerre di religione, sembrano rivenire a galla: l’occhio vitreo del guercio protagonista del suo ultimo libro, L’ascesa (traduzione di Laura Pignatti, Marsilio, pp. 384, € 19,00), si carica infatti di valenze simboliche tanto potenti quanto ambigue, dando vita a una sinistra parabola politica ed esistenziale.

Attingendo a scritti privati, lettere, materiali d’archivio, l’autore belga ricostruisce la biografia di Willem Verhulst, un giovane di umili origini cresciuto nelle Fiandre, cieco da un occhio per via di una menomazione infantile ma mosso da violenta ambizione, che contagiato dalla causa fiamminga cerca il proprio riscatto negli anni precedenti al secondo conflitto mondiale. Vaga tra Belgio e Olanda come commesso viaggiatore, rimane vedovo, si risposa, approda ad Anversa e poi a Gand. Il bambino disorientato e mezzo cieco di un tempo, ora sostiene con fervore l’occupante tedesco, il cui potere lusinga il movimento indipendentista fiammingo, ma che nel concreto fa di esso un vassallo per le proprie mire imperiali. La fascinazione di Willem Verhulst verso un nazionalismo omicida, che lo porterà infine a indossare la divisa delle SS (impreziosita da una goffa quanto inquietante benda da pirata), è la tetra pulsione che anima questo romanzo di solido, ingombrante impianto saggistico; ma c’è, all’origine di questo abbaglio, qualcosa di più profondo, che già si intravedeva sullo sfondo di Guerra e trementina – l’opus magistrale di Hertmans apparso nel 2014 e che dell’Ascesa è in qualche modo il progenitore – dove l’autore recupera e reinventa la biografia del nonno Urbain Martin, reduce della Grande Guerra, all’interno di un affresco letterario ampio e screziato. Ambientato durante la belle époque, quel romanzo era in realtà immerso in un immaginario premoderno, dove tutto o quasi veniva ricondotto a una antica dimensione corporale fatta di umori, tanfi, vagiti, gesti, e dove anche il lavoro manuale sembra esaurirsi in sé stesso, restando impermeabile a ogni idea di accumulo o di profitto. Tra le pagine di Guerra e Trementina anche l’attività di modesto restauratore di affreschi svolta dal capofamiglia, quel «groviglio di nuvole e vesti svolazzanti», non è soltanto una forma commovente di artigianato, è impastata essa stessa del fango che invade campagne e trincee.

La fiandra descritta da Hertmans si presenta dunque come un orizzonte immobile e arcano, e solo la guerra costringe di colpo a fuoriuscirne – non a caso alcune pagine di Hertmans sono connotate da un senso di velocità, di fuga in avanti, che rende possibile percepire il fruscio lasciato dalle vite dei personaggi, sballottati e spinti lontano da una smania nuova e improvvisa.

Lasciarsi alle spalle il proprio mondo, osservarne la dissolvenza: è quanto annotano, ognuno a suo modo, Wilfried Verhulst e Urbain Martin nei propri diari, a partire dai quali Hertmans procede in direzione opposta, ricostruendo minuziosamente il passato dimenticato dei suoi personaggi per dar vita a opere che ha definito di «auto-docu-fiction». L’oblio vi appare come una colpa irreparabile, in primo luogo individuale, cui solo l’indagine storico-analitica può aiutare a sopperire. Qui, nell’Ascesa, l’autore rievoca il momento, negli anni Settanta, in cui per la prima volta aveva notato un edificio decrepito in Drongenhof, nel centro di Gand. Essendone attratto, avventatamente e quasi alla cieca, come in un presentimento, aveva deciso di acquistarlo; l’intera operazione letteraria dell’Ascesa si rivela allora – ai suoi e ai nostri occhi – come un debito da saldare per avere vissuto  vent’anni proprio nella casa appartenuta a Verhulst durante la guerra: «Era come se la casa gemesse, svegliandosi da un sonno indotto da una magia. Il verso di quell’asse, ricavata da un abete rosso probabilmente già alto quando l’Austria aveva ceduto alla Francia i Paesi Bassi meridionali in cambio di Venezia e inchiodata quando il paese era appena diventato una nazione, suonava come un inizio, come il primo vagito di un neonato. Quasi che quel testimone silenzioso mi accogliesse, scorbutico e scostante, e mi introducesse nella danza delle cose che mi circondavano ma ancora non capivo».

L’esigenza di scavare in questo pregresso porta a individuare tre piste che procedono autonome, pur condividendo un’unica origine: inizialmente, il moto precipitoso delle memorie di Wilfried e del suo diario di prigionia, cui si alterna il libro-confessione del figlio Adri, futuro docente dello stesso Hertmans, che nel rigore della sua autobiografia non sempre trova la forza di documentare gli anni e i momenti più scabrosi. Subentra infine, sempre più in primo piano, la voce di Mientje, moglie dedita e amorevole, animata da sinceri sentimenti antinazisti che nei suoi scritti si manifestano in forma di elevazione spirituale, di accorato appello al divino, affinché vegli su un’umanità che le appare ormai irriconoscibile. Attorno alla figura di questa donna olandese, il piano biografico e quello letterario arrivano effettivamente a sfiorarsi, quando Hertmans crede di ricordare un chiassoso corteo giovanile durante il quale, nei mesi precedenti all’acquisto della casa in Drogenhof, doveva aver visto Mientje ormai anziana affacciarsi per un istante a quell’uscio che solo più avanti avrebbe destato il suo interesse.

Ma, ora, l’edificio rievocato appare come un relitto, e la lunga visita alle stanze in rovina, quasi pronte a sprofondare, si svolge specularmente al racconto degli anni di guerra, quando Verhulst ancora vi trascorre le sue ore di esaltazione, di feticismo hitleriano e infine di paura. Così come la spietata SS, prima di fuggire definitivamente e abbandonare la famiglia, aveva bruciato tutti i suoi libri più compromettenti, anche il giovane Stefan è colto dalla tentazione di demolire il vecchio annesso sul retro, het achterhuis, la parte dell’edificio che, come per Anne Frank, portava i segni di una tragedia a lui ancora invisibile. A certe latitudini quelli toccati dal nazismo sono poco meno che luoghi maledetti, e soltanto lavorando a occhi aperti sulle testimonianze si può sperare di raccontarli. Tra i toni accorati della fiction e l’estesa elencazione delle fonti, la biografia della casa di Gand, nelle sue diverse età, diventa allora il terreno dove la lingua di Hertmans ritrova il potere evocativo dei suoi scritti migliori.

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