Steel Pulse, i rivoluzionari di Handsworth
Musica Per il loro quarantennale di attività la band è impegnata in un lungo tour celebrativo con una serie di concerti che fanno tappa stasera al Laboratorio Sociale di Alessandria, domani al CSA Intifada di Roma e il 10 aprile al Granteatro Geox di Padova
Musica Per il loro quarantennale di attività la band è impegnata in un lungo tour celebrativo con una serie di concerti che fanno tappa stasera al Laboratorio Sociale di Alessandria, domani al CSA Intifada di Roma e il 10 aprile al Granteatro Geox di Padova
Un luogo, Handsworth, quartiere popolare di Birmingham, con un’alta percentuale di immigrati, un nome, Steel Pulse (che tradotto letteralmente significa battito d’acciaio), un logo, semplice, in stile graffito, disegnato da Martin Fuller (amico del primo manager della band, Pete King), sono i tratti distintivi ed altamente simbolici di una delle reggae band britanniche più conosciute al mondo. Il 1975, l’anno in cui in un seminterrato di Lindwood Road, nell’abitazione del cantante e chitarrista, nonché fondatore, David Hinds – detto “Dread” per via della sua folta capigliatura -, tre ragazzi provenienti da famiglie operaie immigrate caraibiche (a cui si aggiunsero ben presto gli altri membri che hanno costituito lo zoccolo duro della band), forgiavano i connotati della loro musica fortemente impregnata delle loro identità diasporiche.
Probabilmente, la condizione di “doubleness”, di “doppia coscienza” teorizzata da W.E.B Du Bois, oppure di “changing same” (il medesimo che cambia) di Paul Girloy é meno intellettualizzato nella musica degli Steel Pulse, rispetto a personaggi come Linton Kwesi Johnson, la cui dub-poetry può essere considerata come una trasposizione dei classici della protesta nera quali The Souls of Black Folk di W.E.B Du Bois o di The Wretched of the Earth di Frantz Fanon, che hanno esercitato un’influenza più che evidente nella formazione intellettuale e di musicista dell’autore di Inglan is a Bitch. Tuttavia, non deve sorprendere che la loro coscienza rastafari, al pari dei grandi nomi del reggae giamaicano da cui traggono ispirazione (Gladiators, Burning Spear, Bunny Wailers) e soprattutto Bob Marley, combini elementi riconoscibili del Black Power americano e del movimento dei diritti civili in una visione transnazionale.
Già ascoltando il loro primo album, Handsworth Revolution, pubblicato nel 1978 dalla Island Records sotto le grinfie di Chris Blackwell – il più importante produttore della discografica reggae mondiale – è facile rendersi conto quanto i cardini del nazionalismo nero e delle lotte per l’emancipazione dei diritti dei neri si fondino con la storia delle esperienze forzate di attraversamento, come la schiavitù e l’emigrazione, promuovendo un senso dell’identità come processo instabile piuttosto che come singolo evento fissato una volta per sempre. I loro testi richiedono una capacità di comprensione del sincretismo, dell’adattamento e della mescolanza culturale, in cui il concetto di “blackness” e identità nere contrastanti restano radicati nelle diverse storie locali e si proiettano in scenari particolari come le tensioni sociali, politiche e razziali dell’era thatcheriana, in cui la title track trova il suo terreno di ispirazione (Doesn’t justice stand for all, Doesn’t justice stand for all, Doesn’t justice stand for all mankind, ripetono a cantilena nel ritornello) mentre Prediction é un brano pieno zeppo di riferimenti ai testi sacri.
Anno 2015. Gli Steel Pulse sono sulla breccia da quarant’anni e nella line-up si ritrovano solo due dei membri originari, il cantante e chitarrista David “Dread” Hinds, e il tastierista Selwin “Bumbo” Brown. I nostri si sono lasciati alle spalle il crossover, la teatralità che caratterizzava i loro concerti della gioventù allorché entravano in scena mascherati sbeffeggiando le autorità dell’establishment britannico, i successi e le esposizioni più commerciali, ma non la loro arte ribelle, così autenticamente “in-autentica”, non quell’attitudine a raccontare una condizione “ontologica di dolore” come direbbe Paul Gilroy. Per il loro quarantennale di attività la band è impegnata in un lungo tour celebrativo con una serie di concerti che faranno tappa anche in Italia, stasera al Laboratorio Sociale di Alessandria, il 9 aprile al CSA Intifada di Roma e il 10 aprile al Granteatro Geox di Padova, per proseguire negli Usa, Barbados, Antigua, La Reunion, e in Francia.
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