Stati generali editoria, chiudere e premiare
Ri-Mediamo La rubrica settimanale a cura di Vincenzo Vita
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In una recente intervista pubblicata da Bergamonews e al convegno del passato lunedì sull’informazione locale promosso da Anci e Agcom, il sottosegretario con delega all’editoria Vito Crimi ha annunciato la prossima convocazione (a marzo) degli Stati generali dell’informazione e dell’editoria.
La scadenza, del resto evocata nel tempo dalle categorie del settore, fu annunciata a fine dello scorso anno anche dal presidente del consiglio Conte. Meglio tardi che mai, dice il proverbio. Tuttavia, qui il ritardo ormai è doloso.
L’inesorabile progressione dell’era digitale ha chiuso tante porte, con lascito di crisi e disastri: nelle imprese e nel lavoro. Comunque, se finalmente si definisce un luogo pubblico in cui costruire le tappe di una «strategia di transizione», un passo avanti lo si fa.
Serve un programma di interventi pubblici adeguati per accompagnare il passaggio alla stagione numerica.
Non si tratta, ovviamente, di un ritorno al passato dell’assistenzialismo, bensì dell’iniziativa dello «Stato innovatore» ben descritto dalla studiosa Mariana Mazzucato come fattore di propulsione e di cambiamento dei modelli economici; e la stessa docente presso l’University College London ci ammonisce nel suo più recente volume (2018) di quanto l’estrazione dei profitti sia assai più remunerativa della creazione effettiva del valore.
È l’essenza del Giano bifronte costituito dal capitalismo finanziario e dal volto delle piattaforme, in cui la fabbrica delle news è l’avamposto della sperimentazione piuttosto che il tradizionale specchio deformato dei media.
Infatti, con dati statistici inconfutabili si registra una veloce caduta della carta stampata. Verso gli abissi.
Quest’ultima parabola, unita alla perdurante debolezza del consumo dei libri, configura un vero e proprio allarme rosso per l’intero comparto. Né gli accessi alle versioni digitali dei giornali, pur in aumento, sono in grado di frenare la discesa.
Le vittime sono innanzitutto coloro che lavorano nelle redazioni, sempre di meno e sempre più «normalmente» precari. Il ricorso agli «ammortizzatori» da parte dei grandi gruppi ci racconta come è profonda la notte.
In tale quadro il governo ha pensato bene, come ripetutamente denunciato, di taglieggiare il «fondo per il pluralismo e l’innovazione», diminuendo progressivamente fino alla scomparsa nel 2022 i contributi ai giornali cooperativi non profit, di fondazioni culturali o locali.
Una botta che tocca 150 testate e rischia di tagliare l’occupazione di almeno 2.000 persone.
Ha fatto riferimento a simile inquietante parabola nella sua relazione di apertura ieri del congresso nazionale della Federazione della stampa il segretario Raffaele Lorusso.
Ecco perché gli «Stati generali» arrivano quando la situazione è notevolmente compromessa. E tuttavia la speranza è sempre l’ultima a morire.
Che la conferenza nasca attraverso il confronto con le rappresentanze dell’universo editoriale, evitando qualche improvvisazione presente nella citata intervista del responsabile del governo.
Ha senso parlare di «buoni» per aiutare i lettori se non ci si preoccupa di evitare la chiusura di testate che – per l’appunto – si dovrebbero leggere? È una vecchia e ingiallita ipotesi degli editori, non per caso abbandonata per strada.
Crimi immagina, poi, un «marchio di qualità»: per dividere buoni e cattivi? Giusto il progetto di rivedere i meccanismi della pubblicità ma si ha il coraggio di mettere mano agli affollamenti di spot in televisione?
Se si vuole essere credibili, si ripristini il «fondo per il pluralismo», utilizzando magari il disegno di legge sulla lettura (Atto Camera n. 478, prima firmataria Flavia Piccoli Nardelli) ora in discussione alla Camera dei deputati.
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