Visioni

Stare davanti all’obiettivo è la mia sfida di cineasta

Stare davanti all’obiettivo è la mia sfida di cineasta

Intervista Conversazione con Villi Hermann, dagli esordi al nuovo film sulla guerra d’Algeria

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 6 gennaio 2016

Un premio intitolato a un sociologo e critico cinematografico di confine, Darko Bratina, un festival itinerante tra Italia e Slovenia promosso dal Kinoatelje di Gorizia. Il riconoscimento, dopo Laila Pakalnina, Ruth Beckermann, Jan Cvitkovic, Franco Giraldi e altri, è andato a Villi Hermann. Un cineasta che vive in Canton Ticino poco oltre la frontiera italiana e ha fatto del confine, fisico o metaforico, uno degli elementi cardine di una carriera che dagli anni ’70 di San Gottardo (Pardo d’argento a Locarno nel ’77), passando per tre lunghi di finzione (Matlosa, Innocenza e Bankomatt) si è concentrata sul documentario: tra i suoi più recenti lavori, il viaggio in Cina From Somewhere to Nowhere e Gotthard Schuh – Una visione sensuale del mondo. Un artigiano del cinema, anche produttore con la sua Imago Film, curioso, attento alle novità e al mondo dell’arte. Tra Gorizia, Nova Gorica, Lubiana, Trieste, Udine, Isola e S. Pietro al Natisone sono stati presentati 12 suoi lavori.

 

 

Una retrospettiva impone di ripensare a tutto il proprio lavoro. È stato così anche per lei?
Di solito giri un film, lo porti ai festival e in sala, poi pensi al successivo. La selezione fatta dal Kinoatelje mi ha sorpreso, non avrei scelto i film in questo modo, però ho capito che dietro c’era un percorso presciso nella mia carriera. Ho dovuto cercare le copie, non vedevo da decenni Fed Up, il cortometraggio che ho fatto alla London Film School nel 1969. Ho scoperto che certi suoi elementi ritornano, anche involontariamente, nei film successivi. Mi piacciono quel tipo di inquadrature o di personaggi. Senza cadere nella barzelletta che ciascuno rifà sempre il suo primo film è vero che certe cose restano. Oggi ho il problema di restaurare e rendere visibili i vecchi film girati in pellicola. Il premio Bratina è stato una spinta. Sto cercando di restaurare San Gottardo, il primo film svizzero che mischia fiction e documentario.

 

 

 

Da «Bankomatt», il suo ultimo lungo di finzione, sono passati 27 anni. Non desidera girarne un altro?
Mi piacerebbe perché a volte nella finzione hai più libertà creativa rispetto al documentario. Con gli stessi elementi a disposizione – persone, luce, suoni – puoi essere più creativo. Il documentario ha bisogno del rispetto dell’altra persona e ogni tanto ti limita, non osi provocarla o contraddirla perché magari sei affezionato al personaggio o alla tematica.
Si può fare come la fotografa Vivian Maier che sorprendeva le persone per strada…
Fatico a rubare le immagini, vorrei sempre il consenso dell’altra persona. Capita che qualcuno o qualcosa ti freni, anche la tua etica. Noi svizzeri non siamo come certi documentaristi americani molto aggressivi verso soggetti o tematiche, perché la nostra società è diversa, più sfaccettata.

 

 

 

Tornando alla finzione…
Non ne ho più fatte anche per ragioni produttive. Bankomatt non fu un successo di pubblico, nonostante la partecipazione al festival di Berlino. Il mercato svizzero non è sufficiente, si ha sempre bisogno del sostegno di un Paese vicino. Ho provato a fare un altro film in quella direzione, con un cast internazionale, e me l’hanno bocciato. Così ho ripiegato sul documentario mentre da produttore cerco di dare delle possibilità ai giovani.

 

 

 

Come nasce la scelta di produrre dei registi ticinesi agli esordi?
Ho avuto la fortuna, quando ho girato i miei primi film, di trovare persone che mi hanno aiutato e sostenuto, senza una rete di amici non ce l’avrei fatta. Così punto su giovani con cui ho già collaborato, li aiuto a realizzare il loro film che da soli faticherebberero a fare. È anche un modo per imparare cose nuove: del digitale non sapevo niente, mi hanno insegnato loro. Ho prodotto dei cortometraggi e poi due film di finzione, Sinestesia di Erik Bernasconi e Tutti giù di Niccolò Castelli, che sono andati bene nei festival e al box office in Ticino. Anche il modo di lavorare è cambiato: quando si girava in pellicola si stava di fronte all’attore o dietro la macchina da presa insieme al direttore della fotografia; oggi il regista sta al monitor con le cuffie.

 

 

 

A lei però piace stare davanti all’attore o ai suoi interlocutori.

Assolutamente! Sto girando un documentario sui disertori francesi scappati dalla Francia in Svizzera, Belgio e qualcuno anche in Italia durante la guerra d’Algeria. Davanti a loro sono solo con la videocamera, mi raccontano sogni e dubbi dell’epoca, funziona perché creo un rapporto personale. Mi piace parlare con queste persone e tenere fisicamente in mano la cinepresa: ti dà credibilità, la persona vede che partecipi al suo racconto e sei più vicino alla sua verità.

 

 

 

Così si torna al grande problema del cinema: dove mettere la macchina da presa.
Mi chiedono spesso della differenza tra finzione e documentario. Non ne faccio, mi comporto allo stesso modo in entrambi. Mi interessa la luce: se non ho luce artificiale, sposto la persona in funzione della luce. Per il suono è uguale, uso sempre la presa diretta. Piazzare il cavalletto è funzionale a quel che voglio dire e il problema si pone sempre. Mettere lamacchina da presa davanti alla persona e filmare non è sufficiente per me.

 

 

 

Nei suoi lungometraggi c’è sempre almeno un personaggio che rimane fregato.
Non è calcolato, ma nella società ci sono i perdenti e, quando filmo, ci penso. Anche i disertori sognavano una Francia e un mondo diversi. Oggi alcuni di loro si sentono fregati nei loro sogni e dalla storia. Rischiarono perché credevano in una Francia nuova. Tornarono in patria mentre si preparava il ’68 e i paesi africani diventavano indipendenti, ma oggi il loro bilancio non è positivo, il mondo va in un’altra direzione.

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Nel film entreranno gli attentati a Parigi, i bombardamenti francesi e l’attualità?
Non so come, ma in un modo o nell’altro il tema entrerà, magari anche i rifugiati. Uno degli intervistati alla domanda se lo rifarebbe risponde: se la situazione in Francia peggiora ancora, sono disposto a rifare quel che ho fatto. Lo vedo quell’ottantenne aiutare chi resiste all’avanzata destroide.
Ora quei disertori vivono una Francia dove cresce il Front National, l’erede dell’Oas.
In una città hanno intitolato una piazza a uno dell’Oas. Ho incontrato un disertore che ha insegnato all’università in Svizzera e ora è tornato a vivere in un piccolo paese del sud. Mi ha raccontato la sua storia, ma non vuole essere filmato, ha paura: è in pensione, sono passati cinquant’anni, eppure non se la sente, è significativo.

 

Nei suoi film usa di solito materiale d’archivio. In questo caso?
Ho trovato filmati francesi e anche di operatori americani, inglesi e tedeschi. C’è il documentario La guerre sans nom di Bertrand Tavernier e Patrick Rotman, con racconti allucinanti di soldati al ritorno in patria. Non so se li potrò usare, il problema è il costo. Un’altra fonte è la Croce Rossa: i delegati filmavano, scattavano foto nei campi per rifugiati. Poi ho rivisto Le petit soldat di Godard: dicono che è fascista perché seguiva i killer dell’Oas, ma Godard era molto informato di ciò che accadeva a Ginevra, perché pure i membri dell’Oas scappavano in Svizzera. L’ho cercato, ma non parla. Straub disertò e andò a Monaco di Baviera. Mi ha ricevuto a Parigi e raccontato tanto, ma non si fa riprendere. Vive in un appartamento anni ’50, fuma e tossisce in continuazione, e ha un gatto che gira ovunque: non ho trovato un ambiente e un personaggio più cinematografico! Riproverò, magari facendogli vedere un pezzo di film.

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