Stan Brakhage; il mito della visione
Lucca Film Festival Al filmaker simbolo dell'underground statunitense il festival dedica una personale
Lucca Film Festival Al filmaker simbolo dell'underground statunitense il festival dedica una personale
Dog Star Man (1961-64); The Act Seeing with One’s Own Eyes (1971); Sexual Meditations n.1: Motel (1970); Sexual Meditations: Room with View; (1971) Sexual Meditations: Office Suite (1972); Sexual Meditations: Faun’s Room (1972); Sexual Meditations: Ope Field (1973); ThotFal’n (1978); The Garden of Earthly Delight (1981); Chinese Series (2003); più, a mo’ di extra, Parole e Utopia: #1 Stan Brakhage (2002-2012), film di Donatello Fumarola e Alberto Momo: quest’anno è il cinema di Stan Brakhage a rappresentare nel programma del Lucca Film Festival quella che si potrebbe definire come la tradizione del cinema sperimentale, alla cui celebrazione i “ragazzi terribili” di Lucca, nel corso del tempo, si sono sempre dedicati – compiendo veri e propri miracoli – e alle cui verità hanno sempre creduto – parlano i programmi, fin dalle prime edizioni.
L’omaggio a Brakhage di quest’anno è a cura di Donatello Fumarola, una delle firme di Rai3 – Fuoriorario, ma anche critico cinematografico e filmmaker, e di Alessandro De Francesco, membro del comitato direttivo del Festival e del consiglio direttivo dell’associazione che organizza l’evento, l’Associazione Vi(s)ta Nova. I film – tutti 16mm – provengono dal Collectif Jeune Cinéma e dalla Light Cone di Parigi, soggetti di strategica importanza oggi per il film sperimentale, per le attività di distribuzione, proiezione e conservazione (in rete, www.cjcinema.org e www.lightcone.org), e saranno visibili nella struttura del Cinema Centrale di Lucca, da anni una delle sedi costanti della rassegna.
Ora, cosa dire di Brakhage? Per chi conosce già il suo cinema (appassionati e specialisti), poco o nulla che già non si sappia già. Molto probabilmente si può solo sperare che questo articolo possa valere come una specie di tacito invito indirizzato – come sempre – a mittenti sconosciuti, nella speranza di una persuasione, e cioè che passino qualche giorno a Lucca, data l’occasione di vedere su grande schermo un cinema così semplice e così definitivo allo stesso tempo come quello del nostro.
Discorso diverso potrebbe invece essere per coloro che si confronterebbero per la prima volta con uno dei filmmakers simbolo dell’underground statunitense. In questo caso si potrebbero dare un paio di consigli in merito. Il primo sarebbe quello di un accompagnamento teorico postumo alle proiezioni, una lettura, una recentissima uscita editoriale che capita proprio a proposito: Il cuore dell’essere e il pensiero sensibile. L’atto del vedere di Stan Brakhage (La Camera Verde, 2013, introduzione di Nicole Brenez – per info, www.lacameraverde.com), prezioso saggio di cui è autore Toni D’Angela, studioso di cinema di gran competenza, ideatore e animatore della importante e apprezzatissima rivista multilingue La furia umana. In questo studio preciso nell’analisi e appassionato nel tono l’opera di Brakhage è (giustamente) presentata come quella di un poeta, una «prepotente, possente e lirica voce della soggettività, così americana, così prossima al Trascendentalismo di Emerson» o meglio, per restare in tema, e sempre con le parole di D’Angela: «Il cinema di Brakhage – realizzando e incarnando la profezia di Ralph Waldo Emerson, il padre del Trascendentalismo americano – era la sua stessa vita, un diario, un auto-bio-grafia: l’atto sessuale, la nascita del figlio, la moglie, il suo corpo, la morte, la sua casa, gli amici, la luce, l’ombra, la notte, la foresta, le foglie… La scrittura dell’esperienza irriducibile e singolare e, per questo, aristotelicamente, in quanto così concreta e materica, anche universale.»
Questa cifra universale del cinema di Brakhage così riscontrata è qualcosa attraverso cui si può poi introdurre il secondo consiglio che si potrebbe dare a coloro che si cimenterebbero per la prima volta con la visione del suo cinema o – se si vuole – col “cinema delle sue visioni”. Un qualcosa che spiega bene Donatello Fumarola nella sua nota che accompagna l’omaggio lucchese: «Di lui possiamo dire oggi che è un classico, come John Ford. I suoi film parlano la lingua degli scultori greci, dei mistici medievali, di Li Po, di Dante, dei botanici e degli astrologi, degli impressionisti e dei sognatori. Parlano una lingua che forse oggi non parla più nessuno, antica e silenziosa.» Il cinema di Brakhage come “classico”, dunque. Ma non solo: in quanto tale, non lontano da quella comprensione riservata ai classici dove all’esclusivo dominio del linguaggio simbolico delle arti subentrerebbe come sistema referenziale una sorta di lignaggio mitico preesistente al gioco delle parti: campo di forze potenziali e cangianti per tutti gli schemi di oggettivazione e soggettivazione, nel quale “vedere” diventerebbe in fondo qualcosa di altro rispetto al solito atto logocentrico. Una sensazione totalizzante, forse. Come l’amore.
In fondo, Brakhage, nel rivendicare il suo essere “amatore” – In defense of amateur è il titolo di un suo bell’intervento del 1971, in Filmmakers Newsletter, vol 4, n. 9-10, da leggere – non fa altro che ripetere un intendimento teorico già proprio di altri percorsi definitivi, come quello di un Artaud, laddove il francese teorizzava un teatro anti-estetico, fuori dall’ordine simbolico del discorso, e «il suo reinserimento nel trambusto dell’attività quotidiana, quella dei carri di bestiame, di una Transiberiana, della bomba atomica o di un equipaggio di alto bordo.» Da tale punto di vista, ogni possibile “metafora” sul senso della visione attraverso i suoi film – Metaphors on Vision è poi il titolo di un suo bellissimo libro – svelerebbe oggi la percezione di una vera e propria alchimia degli estremi dove visibilità e invisibilità diventerebbero categorie da ridefinire, sublimate dal mito di una visione come trama inestricabile nello spazio di ogni evento e proiezione infinita di senso in ogni momento.
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