Srebrenica, struttura del male improvvisata
Memoria Nella notte tra l’11 e il 12 luglio di 25 anni fa l’esercito dei serbi di Bosnia uccideva e occultava i corpi di 8mila prigionieri
Memoria Nella notte tra l’11 e il 12 luglio di 25 anni fa l’esercito dei serbi di Bosnia uccideva e occultava i corpi di 8mila prigionieri
Srebrenica è un «toponimo di uno dei misfatti bosniaci», ricordato perché divenuto luogo comune, ma quanto sappiamo davvero di Srebrenica?
A questa domanda tenta di dare una risposta il giornalista e scrittore croato Ivica Djikic, in un libro, «Metodo Srebrenica» (ed. Bottega errante) che non si interroga sui motivi di una delle pagine più buie della storia recente d’Europa, quanto sulle modalità che l’hanno resa possibile.
COME SI ORGANIZZA un eccidio? Come organizzare il trasporto, i centri raccolta, la fucilazione di migliaia di persone? Come fare ad occultare i cadaveri?
Un’impresa che può essere affidata solo a un uomo che «non dà adito a dubbi», un uomo che non analizza, ma agisce, che non discute, ma esegue con efficacia e dà senso a quanto gli viene ordinato.
Quell’uomo è il colonnello Ljubiša Beara. È lui l’uomo della concretizzazione del Male: alla vigilia del suo 56mo compleanno Beara riceve l’ordine di azionare la macchina di morte che porterà allo sterminio di circa ottomila uomini, «turchi» della valle della Drina.
Non una rotella in una macchina di produzione della morte, ma l’artefice convinto di una struttura del male improvvisata, messa in piedi allo scopo di «mostrare al macellaio di Srebrenica, il generale Ratko Mladic, di essere in grado di organizzare un eccidio di dimensioni inimmaginabili».
Djiukic ripercorre la cronaca dei giorni del massacro, a partire dalla notte tra l’11 e il 12 luglio di 25 anni fa quando l’esercito dei serbi di Bosnia del generale Mladic e il loro leader politico Radovan Karadzic prendono la decisione di uccidere tutti i prigionieri e farli sparire il prima possibile.
Beara è l’uomo designato per pianificare l’operazione e a quell’obiettivo ci si dedica completamente: tra notti insonni, sudore e bottiglie di whisky, il colonnello predispone gli autobus necessari al trasporto dei prigionieri, provvede al carburante per portare le vittime in zone lontane da occhi indiscreti, individua le fosse dove gettare i cadaveri.
IL MASSACRO è effettuato con la complicità di un centinaio di uomini, cresciuti nell’Armata popolare jugoslava, che a vario titolo sono a conoscenza di quanto sta accadendo, delle dimensioni e della gravità dell’eccidio, che supera in crudeltà tutti i misfatti perpetrati nelle guerre nell’ex Jugoslavia e tutti quelli avvenuti in Europa dopo la Seconda guerra mondiale.
Dalla fase di pianificazione si passa a quella dell’esecuzione. Sono i giorni dell’eccidio, «un fuoco ossessivo da fucili che parevano saltellare fra le braccia di uomini che non erano assassini professionisti, che mai prima di allora avevano ucciso in quella maniera», uomini che oscillano tra l’impossibilità di sottrarsi all’ordine ricevuto e l’abbandono al delirio di onnipotenza.
D’altra parte, le uccisioni di prigionieri in trappola, gli inutili tentativi di fuga, l’occultamento dei corpi: dal pomeriggio di giovedì 13 luglio fino alle ore pomeridiane o serali di domenica 16 sul territorio di Bratunac e Zvornik viene cancellata la popolazione maschile – adulti, giovani, bambini – di Srebrenica, sotto gli occhi complici delle Nazioni Unite e del mondo intero.
DJIUKIC CI CONDUCE all’interno di questa macchina di morte con una lucidità tale da apparire spietata. Non ci sono odori, non ci sono colori in una cronaca che risulta distaccata, quasi chirurgica, ma che in realtà rispecchia la razionalità con cui è stato pianificato il massacro.
Perché Srebrenica non è un episodio che può essere relegato a una dimensione di follia collettiva, ma è un metodo razionale con cui scientemente si è disposto lo sterminio di migliaia di persone.
La descrizione delle modalità con cui viene pianificato l’eccidio permette all’autore di sondare in profondità le pieghe umane dell’eccidio.
SREBRENICA non è più un luogo comune, ma è un luogo di umana mostruosità che risiede negli abissi più profondi della nostra coscienza. Ricordare e scrivere di Srebrenica implica una discesa in quegli abissi, una rielaborazione profonda a cui il libro di Djukic dà un contributo decisivo. E forse non è un caso che il giornalista croata abbia impiegato dieci anni a stendere questo testo di indubbio valore documentaristico e storico, un testo che ha il pregio di strappare Srebrenica alla dimensione del luogo comune e di fare luce sulle zone d’ombra di quei giorni di morte.
Un’operazione tanto più necessaria in questo momento storico, segnato dal ritorno dei nazionalismi in Europa che vorrebbero mettere in discussione e persino negare le evidenze storiche del massacro di Srebrenica.
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