Squilli di tromba ma solo per capitali illegali
Dopo le trombe suonate ad aprile a gonfie gote, l’Istat ci riporta malinconicamente su valutazioni più realistiche riguardo all’andamento dell’occupazione. Una doccia fredda per gli squillanti twitter di presidenti e […]
Dopo le trombe suonate ad aprile a gonfie gote, l’Istat ci riporta malinconicamente su valutazioni più realistiche riguardo all’andamento dell’occupazione. Una doccia fredda per gli squillanti twitter di presidenti e […]
Dopo le trombe suonate ad aprile a gonfie gote, l’Istat ci riporta malinconicamente su valutazioni più realistiche riguardo all’andamento dell’occupazione. Una doccia fredda per gli squillanti twitter di presidenti e ministri.
Dopo alcuni mesi in parte positivi, ma non per tutte le classi d’età come ormai ben sappiamo, la stima Istat di maggio registra 51mila occupati in meno rispetto al mese precedente. La ripresa dell’occupazione già batte in testa. Il tasso di disoccupazione risale a 11,3%, due punti in più della media dell’Eurozona, stimata da Eurostat a 9,3% per il mese di maggio.
La quota dei senza lavoro tra i giovani aumenta di 1,8 punti su aprile salendo complessivamente al 37%.
[do action=”citazione”]La terza peggiore performance dopo Grecia e Spagna.[/do]
Il dato è ovviamente congiunturale, quindi da solo non è in grado di invertire una dinamica su base annua ancora descritta come moderatamente positiva. Ma certamente segna una battuta d’arresto su un piano sul quale bisognerebbe invece correre e non zoppicare. Non solo, ma questi dati confermano un trend occupazionale qualitativamente negativo. Infatti gli aumenti occupazionali, quando ci sono, si verificano tra gli ultracinquantenni e tra gli assunti con contratti a termine.
In sostanza la nostra occupazione invecchia, a causa della legge Fornero che costringe assurdamente a una vita lavorativa più lunga per avere una pensione già modesta. Nello stesso tempo si precarizza.
Dopo la fine degli incentivi i datori di lavoro sono tornati al loro caro contratto a termine, rivisto in maniera ultraliberalizzata dal primo decreto Poletti. Le conseguenze sulla qualità complessiva del nostro sistema produttivo sono degradanti e depressive. La mancanza di continuità, e di sicurezza nella medesima, nel rapporto di lavoro, ne mina profondamente la qualità, come si può intuire senza bisogno del conforto di statistiche.
Allo stesso modo riesce difficile immaginare l’entusiasmo e l’impegno nel lavoro da parte di chi è costretto a restarvi solamente dalle nuove regole che hanno allungato l’età pensionabile.
Parlare di aumento della produttività in queste condizioni è semplicemente illusorio, peggio offensivo dell’intelligenza di chiunque. Sia che si faccia riferimento alla produttività del lavoro che a quella più generale del sistema. E siccome legare le retribuzioni alla produttività – sempre al di sotto della stessa, intendiamoci bene – è diventato un mantra costante del neoliberismo in tutte le sue possibili versioni – vedi anche quello che Macron sta preparando in Francia – il cane si mangia la coda.
In questo modo pensare di aumentare la domanda rilanciando i consumi popolari appare impossibile. Anche l’inflazione a giugno rallenta a più 1,2%. In calo è il «carrello della spesa», ovvero i beni di prima necessità. Investimenti, pubblici o privati: neanche a parlarne. Il governatore di Bankitalia vuole un avanzo primario del 4% per dieci, tristissimi, anni consecutivi. Sperare in questo quadro di aggredire il rapporto debito/Pil dal versante della crescita del denominatore, anziché da quello della riduzione della spesa sociale, cioè del numeratore, è un pio desiderio.
In più le previsioni, a cominciare dall’Ocse, per l’anno che verrà, sono tutte pessimistiche per la crescita. Si stabilizza l’ombra lunga della stagnazione secolare.
Anche se durerà fino a tutto il 2017 il Quantitative Easing prima o poi dovrà terminare. Si parla dell’inizio del tapering da gennaio 2018, a colpi di 10 miliardi in meno al mese di acquisti di titoli di stato. In sei mesi sarebbe tutto finito, a meno di un nuovo coup de théatre à la Mario Draghi.
Forse l’aumento dei tassi non sarà immediatamente successivo alla fine del QE, ma certo non si farà attendere molto. Affrontare tutto questo già in cattive condizioni è una pessima prospettiva. Ecco perché i dati sull’occupazione di maggio, se li leggiamo con sguardo lungo, sono allarmanti oltre che in sé, per il potenziale negativo che contengono e rivelano. Tutto male, quindi? Non per tutti. Qualcosa che «cresce» c’è anche da noi.
Ce ne parla la struttura preposta di Bankitalia che ha tagliato l’ambito traguardo delle 100mila segnalazioni di operazioni finanziarie sospette (riciclaggio). Sono più che raddoppiate nell’ultimo lustro. Un trend invidiabile e naturalmente su questo incide la voluntary disclosure, ossia il rientro di capitali illegalmente detenuti all’estero senza pagare pegno, con massima concentrazione in Lombardia, terra poco patriottica in questo campo. Non mancano segnalazioni per sospetto finanziamento di azioni terroristiche. Siamo più poveri, ma al passo coi tempi.
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