«Non è forse vero, camerati, che per un certo periodo non abbiamo ritenuto la democrazia necessaria e indispensabile o che, comunque, essa non era al primo posto del nostro amore?». Così parlò a Fiuggi Ignazio La Russa, al congresso del Movimento sociale che nel 1995 si trasformava in Alleanza nazionale. Un quarto di secolo prima, venticinquenne, arringava gli anti-antifascisti della “maggioranza silenziosa” in una piazza di Milano, «italiani che non hanno rinunciato all’appellativo di uomini» e per questo finiva nella sequenza iniziale di Sbatti il mostro in prima pagina, il film di Bellocchio. Un quarto di secolo dopo Fiuggi, oggi che di anni ne ha settantacinque, Ignazio Benito Maria La Russa può diventare presidente del senato, la seconda carica dello Stato.

Vicepresidente – alla camera – lo è da una vita, praticamente la sua nomina sigillò l’ingresso dei – post? ex? – fascisti nei posti chiave delle istituzioni, al tempo del primo governo Berlusconi (1994). «E potevamo anche avere la presidenza», disse allora, con circa trent’anni di anticipo. Presidente fu invece solo della giunta per le autorizzazioni a procedere e contemporaneamente avvocato difensore di Cesare Previti che davanti a quella giunta dovette comparire. Si dimise (da difensore). Nella legislatura che finisce è di nuovo vice presidente, al senato, e si distingue per una gestione allegrotta. Replica agli interventi, fa battute – quasi sempre a sfondo calcistico – finisce col rallentare i lavori. Tutto il contrario del suo sfidante per la poltrona di cui parleremo tra poco,

Ignazio La Russa è il fascista che fu. Convinto dalla svolta di Fini e poi più convinto dalla controsvolta sua e di Giorgia Meloni. È il capogruppo di An che nel giugno 2001 organizza la ronda dei parlamentari a protezione delle forze di polizia al G8 di Genova ed è il nuovo potente che si fa festeggiare per il compleanno a palazzo Venezia con vista sul famoso balcone (ma, assicura, niente di organizzato è stato solo un caso). Ed è poi l’avvocato che i poliziotti che fecero irruzione alla Diaz li va a difendere. Non è più il camerata di San Babila soprannominato La Rissa, ma è ancora, non troppi anni fa (15) l’amico al funerale del terrorista nero bombarolo Nico Azzi. Solo un gesto d’amore, si giustificò, come lo è stato – ha deciso il consiglio regionale lombardo – il saluto romano del fratello di Ignazio, Romano, il mese scorso. Lui, fratello maggiore, quel gesto in pubblico da qualche anno almeno lo evita e non lo ha più fatto quando è andato a celebrare El Alamein con i parà della Folgore o il labaro della X Mas in piazza della Scala. Dovesse essere lui il presidente del senato, domani, alla fine della seduta guidata da Liliana Segre, potrebbe trovarsi a sostutire il capo dello Stato.

Roberto Calderoli, invece, tiene alla carica perché considera di averla ingiustamente persa quattro anni e mezzo fa. Quando la Lega fece il governo con i 5 Stelle sarebbe dovuto andare lui al posto che Berlusconi ottenne invece per Elisabetta Casellati. Non c’era gara quanto a capacità di condurre l’aula. Anche adesso che è vice presidente chiamano lui quando bisogna portare a conclusione velocemente un treno di votazioni, che Calderoli sia in maggioranza o all’opposizione. Ma quattro anni fa Calderoli era ancora un condannato in primo grado e in appello per diffamazione aggravata dall’odio razziale. La storia la ricordano tutti: alla festa della Lega Nord aveva definito «orango» l’ex ministra dell’integrazione Kyenge. A giugno scorso la Cassazione ha annullato le condanne per un vizio di procedura: i tribunali di merito non hanno riconosciuto il legittimo impedimento di Calderoli, che negli anni scorsi ha dovuto combattere contro la malattia. Condanne annullate, prescrizione dietro l’angolo e il leghista di aula e di strada (c’è sempre lui in fila all’alba a consegnare i simboli elettorali o le firme) può tornare eleggibile. Al posto che gli spetta, ne è sicuro, perché nessuno conosce il regolamento come lui (ha anche contribuito assai a riscriverlo in finale di legislatura) e tutti gli vanno dietro quando indica la linea in fatto di procedure e leggi elettorali. Anche se poi confessa di aver fatto una porcata.