Spunti socio-figurativi della scalata al salotto
Alias Domenica

Spunti socio-figurativi della scalata al salotto

Alcuni dei protagonisti di The Gilded Age, la serie televisiva statunitense creata da Julian Fellowes

La serie tv Gli ultimi trent’anni dell’Ottocento sull’East Coast degli Stati Uniti, allora giovanissimi, videro i neo-ricchi muovere guerra alla cultura e ai riti della vecchia nobiltà: come li rappresenta Julian Fellowes

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 19 giugno 2022

Se è vero che le prime righe di un libro contengono il significato più profondo della sua trama, quel capolavoro che è L’età dell’innocenza di Edith Wharton inizia a New York, una sera di gennaio, all’Academy of Music: uno dei punti di riferimento del vecchio mondo conservatore che è al centro del romanzo. Già si stava parlando della costruzione di un nuovo Teatro dell’Opera che avrebbe gareggiato per sfarzo e costo con quelli europei, ma sarebbe stato in una zona remota della città, ben oltre la Quarantanovesima, e soprattutto sarebbe stato preso d’assalto da tutta quella «gente nuova» per la quale New York cominciava a provare timore ma anche una certa attrazione.

Lo scontro fra quella «gente nuova» e i vecchi rappresentanti dell’alta società è ora il nucleo pulsante dell’ultima – bellissima – serie televisiva partorita dal genio di Julian Fellowes: The Gilded Age. Con questo termine, preso a prestito da un romanzo di Mark Twain, si definiscono generalmente gli ultimi trent’anni dell’Ottocento vissuti sulla costa est degli allora giovanissimi Stati Uniti. La guerra civile era una ferita ancora aperta che aveva però offerto enormi possibilità economiche a una classe sociale che, fino ad allora, non avrebbe ambito ad affacciarsi in società.

Privo di una vera e propria aristocrazia, il vecchio mondo della East Coast si era dato delle regole ferree che apparivano impossibili da scardinare e che, in qualche modo, hanno retto fino a oggi se si considera che il Circolo per Gentiluomini più esclusivo ancora presente a New York è il Knickerbocker che, all’altezza della Sessantaduesima e affacciato sul Parco come si conviene agli indirizzi più eleganti, deve il proprio nome a quella porzione di società di origine olandese che per prima aveva contribuito a fondare la città.

Agnes Van Rhijn, una delle protagoniste della serie, come si deduce dal cognome ne è fra le esponenti principali. Tanto depositaria delle buone maniere e delle vecchie tradizioni quanto acerrima nemica del nuovo che avanza, Agnes si troverà suo malgrado al centro della vicenda narrata, diventando fatalmente dirimpettaia del meraviglioso palazzo che i due nouveaux riches George e Bertha Russell hanno da poco finito di far costruire.

È qui, nel 1882, sulla Quinta Strada, sempre più o meno all’altezza del Parco, che ha inizio non solo la prima puntata, ma anche un intrigantissimo gioco di rimandi e riconoscimenti a cavallo fra realtà e finzione che fanno di questa serie qualcosa di più di una magnifica storia televisiva.

Ma se è appassionante cercare di svelare l’identità dei vari personaggi inventati, e capire per esempio se dietro a Bertha Russell ci sia Alva Vanderbilt, quanto sua figlia Gladys sia ispirata alla mitica Consuelo che andrà prima in sposa – non certo per amore – al nono duca di Marlborough e, dopo l’annullamento del matrimonio, caso quasi unico fra i transatlantic marriages di quegli anni, si risposerà con il pilota di aerei Jacques Balsan, e la controversa e scandalosa Mrs. Chamberlain che, esclusa dalla società che conta, ama passeggiare fra i dipinti della propria collezione di impressionisti francesi, sia davvero influenzata dall’esistenza, altrettanto scandalosa e allo stesso tempo dedita al collezionismo, dell’ambiziosa Arabella Duval Yarrington, moglie in seconde nozze del magnate Collis Huntington e poi, in terze, del di lui nipote H.E. Huntington, oppure quanto della personalità di Jason «Jay» Gould, tra i primi grandi imprenditori ferroviari del Midwest, sia andata in prestito all’arrogante, arrivista e geniale George Russell; ancora più interessante è seguire da vicino i personaggi veri. Sono questi infatti che, come angeli custodi, accompagnano la trama della narrazione che a questo punto non riguarda più soltanto le vicende d’amore di Marian e dell’avvocato arrampicatore sociale Tom Raikes o le ambizioni della giovane aspirante giornalista di colore Peggy Scott, ma raccontano quanto e come una città – e con essa tutta la società anglo-americana – sia cambiata sotto la spinta di una nuova classe emergente che voleva affiancarsi alla precedente che, a sua volta, non aveva più la forza di opporre resistenza.

E così anche nel caso di The Gilded Age in una delle primissime scene è forse contenuto il significato profondo dell’intera storia: dopo un via vai di carri da trasloco con quadri e statue di marmo impacchettate, finalmente il palazzo è pronto per ospitare la sua proprietaria. La carrozza di Mrs. Russell arriva sotto gli sguardi nascosti dietro le tende delle vicine di casa e ad attenderla per un primo giro nella sua reggia c’è l’architetto Stanford White, uno dei più grandi della sua epoca, protagonista insieme ai colleghi William Rutheford Mead e Charles Follen McKim di alcuni progetti che hanno segnato l’architettura americana di fine Ottocento.

L’ingresso di Mrs. Russell, vestita come in un dipinto di Sargent, è ovviamente trionfale come di più non potrebbe essere, ma, nel passaggio da un salone all’altro, si nota improvvisamente in lei una leggera sfumatura di imbarazzo, una sorta di rigidità inaspettata che rivela la sua convinzione di non trovarsi ancora a proprio agio, di non sentirsi all’altezza di tanto sfarzo accumulato in così poco tempo. È questione di un attimo e basta poco perché la giovane donna rientri immediatamente in sé dandosi però un tono che la farà presto scivolare su una invisibile buccia di banana. Con lo sguardo verso un oggetto fuori campo si rivolge infatti con fare fintamente disinvolto a Stanford White chiedendo e affermando al tempo stesso se quel misterioso oggetto provenga da Palazzo Borghese. Ora l’imbarazzo passa di colpo dalla parte dell’architetto che, elegantemente, è costretto a correggere la ricca committente dicendole che no, proviene dall’Hotel de Soubise, nel Marais.
Tutto qui! E vi pare poco?

Si tratta di un errore grossolano e raffinatissimo al tempo stesso, che una vera signora dell’upper class non avrebbe mai commesso, non in quel modo, che rivela mancanza di gusto, mancanza di preparazione e l’assenza di una adeguata cultura: come si fa a confondere l’arte italiana con quella francese? Si tratta di una frattura ancora insanabile all’interno della società nuovayorchese che fa capire quanto Mrs. Russell fosse ancora lontana dai «quattrocento» ammessi nella ballroom di Caroline Astor.
Elevare il proprio livello di gusto e di raffinatezza per guadagnarsi un posto nell’alta società che davvero conta fu la grande scommessa (vinta) che dovette affrontare quella «gente nuova» che, pur carica di soldi, era sistematicamente esclusa dall’upper class. I nuovi arrivati si rivolsero così all’Europa, al vecchio mondo, e lì trovarono matrimoni altisonanti con i migliori nomi della nobiltà internazionale oppure tesori d’arte da mettere in bella mostra nei palazzi e nelle ville costruite dagli architetti più in voga del periodo. È così che sulle cronache mondane e nei salotti fino ad allora inaccessibili iniziarono a prendere corpo due figure caratteristiche della cultura americana di quegli anni: l’ereditiera e il collezionista.

Si contano quasi un centinaio di matrimoni fra giovani ricchissime, eredi di nuovi patrimoni, e nobili rampolli squattrinati, tanto che a questo fenomeno Maureen E. Montgomery ha dedicato un volume dall’eloquente titolo Gilded Prostitution (Routledge, 1989), mentre i collezionisti e le opere d’arte in viaggio verso l’America saranno al centro di numerosi romanzi della Wharton e di Henry James.

A proposito, lo scrittore nato americano e morto inglese aleggia come un’ombra su tutta la serie, tanto che proprio Agnes Van Rhijn, con una punta della sua nota acidità, non può fare a meno di dire alla nipote, che distrattamente ne legge un romanzo: «Non sarà un po’ troppo presto per una ragazza leggere Henry James?». Forse sì, ma certamente non è mai troppo tardi.

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