Nelle religioni esiste un nucleo utopico che il pensiero critico non può ignorare; d’altra parte questa «forza di trascendimento» dell’esistente, per dirla con De Martino, dev’essere liberata da ogni forma di teologia della storia e dal fondamentalismo che ne consegue, e di cui vediamo le conseguenze nefaste nelle guerre attuali. Utopia e religione hanno dunque in comune «una tensione antica e nota alla trasformazione del mondo», ad attribuire «realtà al possibile, traendolo fuori dall’impossibile»; d’altra parte, l’utopia si fonda sulla critica di ogni visione finalistica o provvidenzialistica della storia.

ESSA EVITA quell’irrigidimento della religione in fattore di identità culturale esclusiva che Rino Genovese nel volume L’inesistenza di Dio e l’utopia (Quodlibet, pp. 128, euro 12) definisce come «trascendentalizzazione», e che porta a escludere un rapporto di vera reciprocità con le altre culture, ponendo la propria come a priori esclusivo. Torna frequente nel libro il tema dell’ibridazione culturale, che è sempre stato al centro della riflessione dell’autore. Proprio le religioni l’hanno praticata nella forma più sensibile, e il cattolicesimo in modo intenso, come ha mostrato De Martino, sovrapponendo strati di immaginario pagano e di miti arcaici e le figure e i riti propriamente cristiani.

Nell’ibridazione non si coniugano solo culture lontane nello spazio, ma anche strati di tempo diversificati: «Ognuno è cittadino di due mondi, di un presente del passato e di un presente del futuro». La situazione attuale, moderna, che certo va colta nella sua irriducibile contraddizione determinata, mostra anche al suo interno la presenza di uno strato psichico arcaico e mitico, oppure semplicemente appartenente a stadi precedenti della storia di una cultura, che possono comunque fuoruscire dalla propria latenza.
Il moderno e l’arcaico fanno da sfondo l’uno con l’altro. C’è il rischio in tal modo di smarrire la specificità dell’ora in cui siamo, ma d’altra parte senza questo spessore temporale il presente stesso diverrebbe una vuota stasi; l’utopia ha il compito di riaprire costantemente la cultura che tende a rinchiudersi nella tradizione e nella ripetizione.

È NOTO DEL RESTO che nel corso del Novecento le utopie politiche, divenute esse stesse immagini di regni millenari o di società perfette, hanno condotto a rovinosi disastri; ma la concezione che Genovese ha dell’utopia rovescia paradossalmente in positivo il concetto hegeliano di «cattiva infinità»: «Se non c’è tensione verso un orizzonte in fin dei conti irraggiungibile, che non può mai essere chiuso in quanto tale, non c’è nemmeno utopia». Non c’è condizione sociale che possa evitare interamente il ripresentarsi di conflitti e incrostazioni di potere, di fronte a cui l’immaginazione utopica deve rimettersi in moto elaborando ulteriori forme di trascendimento dell’esistente, inedite e adatte alla nuova situazione.

L’orizzonte utopico si sposta sempre oltre verso un «fin-qui-impensato», in rapporto alla contraddizione determinata che non cessa di assumere nuovi tratti specifici e che richiedono uno spostamento del punto di vista.

Così, per fare un esempio, se per il primo socialismo l’idea di un lavoro dignitoso e libero per tutti poteva far parte dell’immaginario utopico, oggi lo è piuttosto quella di una liberazione dal lavoro, ovvero di una sua riduzione significativa, recuperando quella che Fourier chiamava «passione farfallante», con la possibilità di cambiare attività spesso e rapidamente. Genovese non si sottrae al rischio di indicare qualche tratto di quella che potrebbe essere la versione attuale dell’utopia e che comprende alcune proposte precise: da un lato un «riformismo incessante», parallelo sul piano politico al continuo spostamento di asse del pensiero utopico, e ad una ripresa del conflitto sociale.

CON ACCENTI che ricordano il «momento machiavelliano» caro a Miguel Abensour, il conflitto e la presa di coscienza collettiva non solo non possono essere confusi con la violenza, ma costituiscono l’unica alternativa possibile al deflagrare del risentimento inconsapevole nelle pulsioni distruttive della guerra e delle contese nazionalistiche.
Occorre rivalutare «la specifica portata antibellica del conflitto sociale», e contrapporlo alla servitù volontaria e alla narcosi delle rivoluzioni passive prodotte dal neoliberismo. Lotte politiche «ordinarie come quelle contro il precariato o per la riduzione dell’orario di lavoro hanno bisogno di un orizzonte utopico che le collochi in una prospettiva anticapitalista ed entro un rinnovamento del pensiero e della pratica del socialismo (non solo quello prospettato da Marx, ma quello visionario di Fourier).