Tra le tante limitazioni imposte dalla pandemia, la privazione del contatto fisico attraverso le strette di mano e gli abbracci, è stata certamente la più sofferta. L’ assenza degli abbracci per un lungo periodo ha contribuito a rivalutarne il valore e il bisogno, inoltre, ci ha fatto apprezzare ancor più un gesto spontaneo dai mille significati. Mai come in questo momento storico, in particolare, vorremmo che le armi tacessero e che i popoli in guerra tornassero ad abbracciarsi. Questo gesto relazionale universalmente riconosciuto presenta un ampio ventaglio semantico che va dall’intimità amorosa all’abbraccio in pubblico inteso come vicinanza all’altro, fino alla mamma che tiene in braccio il bambino privo di vita, come le immagini crude degli ultimi mesi ci hanno mostrato a seguito dei bombardamenti israeliani sui palestinesi della Striscia di Gaza.

In passato figure religiose testimoniavano la loro carità con l’abbraccio ai poveri, quello dato ai lebbrosi acquisiva persino un significato di santità. Oggi gli abbracci tra leader politici esprimono ideali e progetti di vita, ma in alcune circostanze sono anche espressione di ipocrisia o di puro calcolo. Nella letteratura e nell’arte medievale, come documenta Virtus Zallot nel libro Un Medioevo di abbracci (il Mulino), abbracciare esprimeva la disponibilità ad accogliere, la gioia e la sorpresa di ritrovarsi, a volte attraverso l’inclusione corporea si manifestava l’ accettazione di un esterno, anche straniero, nello spazio affettivo dell’altro. Accadde secoli prima anche al naufrago Ulisse, soccorso sulla spiaggia da Nausicaa, mentre giocava a palla con le sue ancelle, poi condotto alla corte di Alcinoo re dei Feaci, che dopo averlo rifocillato organizzò in onore dello straniero persino delle gare sportive.

Nell’abbraccio i corpi si aprono per includersi in un dinamismo fisico ed emotivo seguito da espressioni sonore. È quanto avviene in maniera sempre più plateale nello sport. L’ abbraccio è seguito o preceduto da urla di gioia per la vittoria, in questo ambito la dinamica corporea esagerata e il significato simbolico vanno di pari passo. È, invece, tiepido l’abbraccio tra il tennista vincitore di Wimbledon e lo sconfitto. Sul ring il tentativo di abbracciare il pugile avversario ha il significato di impedire all’altro di sferrare colpi decisivi, la presa dell’ altro per qualche secondo, anche se sotto lo sguardo vigile dell’arbitro, riduce il movimento dei guantoni. Nel ciclismo, come negli altri sport individuali, è solo dopo il traguardo che è concesso

Lo spettro semantico più variegato dell’abbraccio sportivo si manifesta soprattutto nel rettangolo verde e sugli spalti, dove a dettare l’intensità delle emozioni è la sfera di cuoio che sfiora il palo o finisce in rete. Il calciatore più abbracciato non è colui che segna sempre, verso il quale vi sono aspettative quasi scontate da parte dei compagni di squadra e dei tifosi anche prima del match, ma colui che non segna mai, magari un terzino, quando accade corrono tutti ad abbracciarlo perfino dalla panchina e a volte il primo a correre verso l’inatteso goleador è proprio l’allenatore.

L’ emozione improvvisa di un gol manda il cuore a mille anche a coloro che sono sugli spalti, non di rado in un momento di euforia collettiva spinge gli spettatori ad abbracciarsi anche se il vicino è uno sconosciuto, un gesto che mai si sognerebbero di fare in altri contesti. In area di rigore, dove le insidie per un gol si fanno più minacciose, l’abbraccio produce una discontinuità rispetto ai significati precedenti, infatti, si trasforma in presa corporea che trattiene, diventa presa di lotta che aggredisce l’avversario per impedirgli di saltare e colpire la palla di testa per mandarla in rete.

Nella storia del football vi sono stati calciatori che non hanno mai esultato dopo un gol, tra questi l’ uruguaiano del Penarol José Piendibene «uomo di rara maestria e ancor più rara modestia che non festeggiava mai i suoi gol per non offendere nessuno» scriveva Eduardo Galeano in Splendori e miserie del calcio. A Montevideo nel 1926, ricorda lo scrittore latinoamericano a lungo collaboratore del manifesto, Piendibene nel corso di una partita contro il Barcellona, la cui porta era difesa dal fortissimo Zamora (figura alla quale Neri Marcoré ha dedicato recentemente un film intitolato Zamora), riuscì a fare gol. Piendibene non solo non amava esultare, ma non voleva abbracci dai compagni di squadra.
Al termine di una partita di calcio importante, come la finale di Champions League o dei mondiali di calcio, l’abbraccio tra il vincitore e lo sconfitto, mediato dallo scambio della maglia, sancisce il distacco, le braccia non si stringono fortemente all’altro, come avviene tra i vincitori, ma si dischiudono rapidamente e lasciano andare.

L’abbraccio tra i calciatori che stanno uno di fianco all’altro in una finale che si decide ai rigori, mentre un compagno di squadra si appresta a calciare dal dischetto, simboleggia l’unione in un momento di grande tensione, perché il rigore può essere decisivo per la conquista di una Coppa. Avvenne a Berlino nel 2006, dopo il rigore decisivo tirato da Grosso, che permise all’Italia di laurearsi campione del mondo. In quei frangenti, non solo si abbracciarono gli Azzurri in campo, ma un’intera nazione. Festeggiano con gli abbracci anche i calciatori in campo delle serie minori, magari scampati alla retrocessione durante l’ultima partita dei play-off decisa nei minuti terminali.

Il linguaggio sportivo in generale, ma soprattutto quello calcistico, spesso ricorre a espressioni della terminologia bellica, come siluro, missile, bomber, cannonata, però tutto si conclude a fine match e a volte proprio con degli abbracci. In tempi di guerre diffuse, vorremmo che anche al di fuori dei confini dello sport prevalesse questo gesto semplice e dal significato disarmante.