Spogliando Cirano dai suoi stilemi al ritmo di una strofa rap
A teatro Leonardo Manzan rivisita il dramma di Rostand, luci strobo e dj set per cogliere il senso della gioventù. In scena dopo il debutto alla Biennale, lo spettacolo elimina gli elementi datati «uccidendo» il protagonista
A teatro Leonardo Manzan rivisita il dramma di Rostand, luci strobo e dj set per cogliere il senso della gioventù. In scena dopo il debutto alla Biennale, lo spettacolo elimina gli elementi datati «uccidendo» il protagonista
Cirano ama Rossana ma Rossana ama Cristiano. È tutto lì il dramma di Edmond Rostand, Cyrano de Bergerac. E infatti a chi verrebbe in mente oggi di mettere in scena questo fumettone francese del 1897, lo spadaccino dallo smisurato naso, il bacio ch’è una parentesi rosa… A Mosca c’era già Stanislavskij che faceva il Gabbiano di Cechov. Che muoia allora Cirano e tutto quel vecchio teatro. Ma forse c’è un’altra storia da raccontare, o un altro modo di raccontare quella storia. Siamo davanti a un vecchio palazzo di periferia. Rossana ogni giorno si affaccia al balcone, rilegge ogni giorno lo stesso copione, una storia di quattro secoli fa. Dice così, l’attrice. Confondendosi un po’ nel personaggio.
SONO GIÀ lì i tre attori del Cirano deve morire di Leonardo Manzan, all’ingresso in sala degli spettatori. Per un po’ restano immobili. Rossana in alto, al centro del canonico balcone, che però bisogna un po’ immaginarlo in quell’impalcatura metallica che attraversa la scena di Giuseppe Stellato. Gli altri due se ne stanno accucciati in basso, un po’ in ombra, quasi a rendere fisicamente visibile da subito il triangolo che formano. Quando si tirano su, cominciano un duellare pallido e assorto, le lame che si toccano appena, tic-toc-tic. Per farli smettere deve venir giù lei e lo fa a colpi di randello sulla schiena, anche piuttosto vigorosi. A mettere in chiaro che lì la protagonista è lei, non quei due che le hanno rovinato la vita.
Questo sorprendente Cirano deve morire, scritto dal regista insieme a Rocco Placidi e benissimo interpretato da Paola Giannini, Alessandro Bay Rossi e Giusto Cucchiarini, Manzan l’aveva presentato alla Biennale veneziana del 2019, ancora sotto la direzione di Antonio Latella. Poi si sa, è arrivata la pandemia con quel che n’è seguito. Adesso è stato rimesso in scena al teatro Vascello, e promette di girare ancora nel prossimo anno. Lo merita. Ciò che promette in realtà è uno spettacolo concerto con musica rap, dj set e luci strobo. Tutta l’attrezzeria di una discoteca, che infatti richiama un pubblico giovane, forse non abituato alla sala teatrale ma che non si tira indietro quando è sfidato a rispondere a un duello verbale. Manzan la sua «avvelenata» contro il potere l’affida a un Cirano che traduce in termini contemporanei, diciamo così, i poetici giochi di parole del suo predecessore. Niente di particolarmente scandaloso, gli «insulti al pubblico» hanno una loro tradizione sulla scena.
PIUTTOSTO Manzan lavora di sottrazione. Via lo spadaccino dal gran naso. Via il mantello e il cappello piumato, restano solo gli stivaloni alti fino alla coscia, sotto la felpa col cappuccio tirato sul capo che costituisce la divisa del rapper. Via il romanticismo dolciastro dell’apostrofo rosa che ormai fa venire in mente soltanto i Baci Perugina. Via anche quel cameratismo maschile che sembra resistere a ogni prova. Quello che resta alla fine… già cosa resta? Qui se serve viene in aiuto la Grande Metafora. La cipolla sbucciata da Peer Gynt, per esempio. A ogni strato che togli ne appare un altro finché alla fine ti accorgi che non resta niente in mano. Per scoprire però che la cipolla, in questo caso Cyrano de Bergerac, è proprio quel sovrapporsi di sottili pellicole. Forse quel che resta è il sentimento molto giovanile di essere soli contro tutti. Alla fine Rossana rimette a Cirano il lungo naso, cioè la sua maschera o se si vuole la sua convenzione. Cirano è stato ucciso.
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