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Spie lessicali di emotività prepotenti

Spie lessicali di emotività prepotentiMario Schifano, Festa cinese (particolare) 1968

Saggi Decisamente innovativo, il contributo storiografico di Francesca Socrate in «’68 Due generazioni» immette nel testo sessantatre interviste filtrate con gli strumenti della linguistica computazionale e testuale

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 27 maggio 2018

Ha un titolo umile e persino deminutorio, Sessantotto Due generazioni (Laterza, pp. 288, € 22,00) di Francesca Socrate, quello che invece è un contributo storiografico decisamente innovativo, per il taglio e gli strumenti adottati, circa una ricorrenza che l’industria culturale, viceversa, sta proponendo nei modi di un vero e proprio giubileo. Il ’68 italiano preso in esame da Socrate è una data puntuale, breve e bruciante (non già dilatata o liquefatta nel decennio antagonista), e ha per epicentri alcune sedi universitarie, fra cui Torino, Firenze, Napoli e, in primis, la «Sapienza» di Roma: da tale spazio/tempo provengono i ricordi delle sessantatre persone intervistate, militanti o testimoni di allora, che devolvono al presente una traccia memoriale di cui Francesca Socrate, una storica dell’età contemporanea, mette in conto la costitutiva complessità e ambiguità come esito, volta a volta, di lunghi negoziati interiori, di inconsce interpolazioni, talora di autocensure e rimozioni: «Le interviste su cui si fonda questo libro sono fatte perciò di una materia spessa, magmatica e disomogenea, dotata di una intensità emotiva prepotente».

Le singole voci vengono trascritte secondo la metodica, oggi molto raffinata, della cosiddetta storia orale per essere elaborate (e qui, va detto subito, sta la evidente novità della ricerca) con gli strumenti di due discipline della frontiera digitale e cioè la linguistica computazionale e testuale che distinguono, quanto agli usi espressivi di una data comunità, fra il «vocabolario caratteristico», le «occorrenze» e un «linguaggio peculiare» (nel qual caso 37.000 parole per 840.000 occorrenze). Al lettore non specialista basterà tuttavia, per orientarsi, la classica distinzione di Saussure fra langue e parole, dunque la dialettica tra le possibilità espressive di una comunità in un determinato spazio/tempo e il loro utilizzo singolare, individuale, perché la lingua, disse proprio quel grande pioniere, non mente neanche quando vorrebbe e potrebbe mentire. Ed è appunto dalle spie linguistiche che Francesca Socrate deduce il tracciato dove si incontrano due generazioni contigue, le stesse dei sessantottini nati prima e dopo lo spartiacque del 1945.

I primi (specialmente le donne, che ne sono l’autentico sismografo) vengono da una lunga e tacita erosione dell’ordine disciplinare borghese, con rare benché premonitorie accensioni politiche, tra i fatti di Reggio Emilia ’60 e quelli di Piazza Statuto ’62: costoro arrivano al ’68 già adulti e formati trovandosi al cospetto di un evento culminante ma per loro conclusivo, se infatti tendono a parlarne più che altro in terza persona, con pacatezza riflessiva e con etimologica ironia, quasi si trattasse di un evento inattuale e a distanza meteoritica, perfettamente storicizzato.

La scelta espressiva dei nati nel dopoguerra è opposta e complementare: ormai prossimi ai baby-boomers di estrazione non solo borghese, scelgono decisamente la prima persona e nel referto prediligono l’imperfetto (che è il tempo durativo per eccellenza) a riprova di un coinvolgimento mai rescisso che, ora per allora, si manifesta in prevalenza nel ricordo di una ingenuità politica o di una inadeguatezza alle pratiche del Movimento di cui sono un chiaro segnale i reiterati «non sapevo» e «non capivo», laddove proprio la loro iniziale apatia nei confronti della politica e delle sue organizzazioni ufficiali favorisce paradossalmente l’osmosi, presto divenuta proverbiale, della dimensione privata con l’esistenza in pubblico. In quella che si trovò a formare una «comunità giovanile spontanea» (sono parole di Peppino Ortoleva) possono oggi riscontrarsi alcune invarianti che in realtà, calcolandone il differenziale cronologico, erano intersezioni: il fastidio o l’attacco diretto al principio di autorità come tale e il senso di un ardore collettivo, una pienezza fusionale, di cui però si sono percepiti già all’origine i rischi di precoce normalizzazione o, peggio, di istituzionalizzazione.

Anche per questo il capitolo baricentrico di Sessantotto, dedicato alla testimonianza delle donne, è decisivo. Qui, con grande finezza analitica, Socrate coglie il prevalere, in retrospettiva, di espressioni dubitative (i «forse», gli infiniti «sarei» o «avrei», spie della cautela antiretorica e di una saggia concretezza) ma specialmente scorge un universo dominato dal «non», la particella più ambigua del linguaggio, perché se da un lato designa la realtà del divieto e del rifiuto dall’altro richiama mutamente quanto essa stessa presume di negare.
E nella spiccata ambivalenza del «non» davvero si profila il decorso di una condizione femminile che procede dal rifiuto dei ruoli tradizionali, asserviti o comunque subalterni, verso una laboriosa e dolorosa ridefinizione di sé, la quale implica a sua volta il rapporto con il proprio corpo, con la famiglia di origine e i maschi del Movimento, spesso inclini a ribadire di fatto le medesime gerarchie e autarchie che negano di diritto. Non mi comandi più, dice a suo padre una ragazza esasperata che se ne va di casa sbattendo la porta: scagliato da dentro e dal basso, in questo grido primordiale (che sa valicare in un attimo antichi interdetti di classe, di cultura, di genere) c’è tutto quanto il ’68 e c’è, nuda e cruda, la sua vera eredità.

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