Una delle poche volte in cui ho parlato per più di qualche minuto con l’avvocato Agnelli fu, molti anni fa, in casa di Federico Zeri a Mentana. Bizzarramente ambedue i signori erano allegri e non avevano fretta. Parlammo a lungo di opere d’arte: Federico ci fece sfogliare un catalogo molto variegato di una curiosa collezione che andava all’asta in Svizzera: «che divertente!», diceva ad ogni quadro l’avvocato e sembrava l’unica qualifica con cui poteva manifestare il suo interesse. Divertente, sì, come si dice di una barzelletta, di una battuta o di una donna di mondo.

Ho pensato spesso a quel lontano incontro con quell’elegante signore così celebre e così cortese che non si poteva non considerare divertente. Forse anche un po’ leggero, un po’ accondiscendente, non remoto.

Divertente… che vuol dire? Quando mi trovo in qualche dubbio lessicale vado a consultare un vocabolario, perlopiù uno dei trenta volumi di Niccolò Tommaseo, sempre premuroso di metterti a tuo agio.

L’aggettivo «divertente» non è propriamente elencato nel relativo volume del prolisso filologo, che a dire il vero preferisce l’aggettivo oggi molto inusuale «divertevole», e prende alla stregua di sinonimi il verbo divértere e divertire, ma indica come divertire possa anche voler dire «volgere altrove», offrendo questo esempio che oggi ci appare quasi comico: «si curano le ulcere putride del naso evacuando e divertendo gli umori in qualche altra parte acciocché il flusso d’umori non cada dal naso».

Temo che le spiegazioni sistematiche del filologo sembrino qui dettate da Franca Valeri… Divertenti? Sono ovviamente importanti le scelte, le presenze, ma non sono meno significative le assenze.

Andy Warhol, Knives, 1981-’82

Dovrei parlare oggi de L’uomo senza qualità. No, non è il famoso libro di Musil, ma il catalogo (edito da Silvana) della mostra su Gian Enzo Sperone collezionista, conclusasi al Mart di Rovereto il 3 marzo scorso.

Un enorme volume di 375 pagine, ideato da Vittorio Sgarbi e curato da Denis Isaia e Tania Pistone, con testimonianze di Goffredo Parise, Robert Rosenblum, e di persone meno famose, come chi scrive. Il catalogo delle opere possedute da Sperone è meno stupefacente di quello degli amori di Don Giovanni. I quadri appartenenti a Sperone sono certamente meno delle amanti del suddetto, migliaia, ma quel che sorprende, accennavo prima, è quel che manca. E quel che manca, diciamolo subito, è l’ovvietà e anche alcuni must che in realtà tutto sono tranne che insostituibili.

Quel che conta sono le scelte, e vedo con approvazione che fra i grandi pittori italiani a lui cari c’è Filippo de Pisis, un artista che oggi non sembra di moda, né tantomeno accettato dall’intellighenzia.

Perché? Il solo quadro è illustrato a pagina 212: un Autoritratto come Rubens, insieme ad un marinaio molto truccato e con dei gladioli in mano. Un capolavoro di ironia e di magnifica pittura: quel che è vero sembra falso e quel che è falso sembra vero in questa sorprendente doppia immagine in cui il pittore sa, condizione da non sottovalutare, sorridere di sé stesso.

Un altro dipinto che ha incantato la mia immaginazione è la Composizione metafisica di De Chirico del 1916 (p. 69), un geniale insieme di oggetti che è impossibile definire. Potrebbero anche essere, se si vuole, i metri e gli scampoli dell’atelier di una sarta, di una sarta metafisica forse, ma piena di garbo classico.

Insomma, a mio avviso un’opera indecifrabile e magnifica.

Ma ogni scelta di Sperone è capricciosa e ponderata nel contempo, e comunque irripetibile. Qualcuna è sorprendente, qualcun’altra arriva ad essere ingenua, altre di un tale sense of humour quasi enigmatico che noi possiamo indovinare senza esserne certi: resta il dubbio, ma un dubbio un po’ offensivo per chi guarda, di non capire. Ma non capiamo noi – Sperone capisce sempre.

Ho sempre pensato, quando l’ho visto di qui e di là, che Francis Picabia fosse un artista fuori dal comune, ma questo forse perché era un po’ cubano come me, e dunque per una forma malsana di patriottismo. In realtà non avevo torto. Il suo squisito quadro, un ritratto di tale Suzanne, del 1942 (p. 213), raffigura una sorta di Rita Hayworth non sai se costernata o ebbra – una piccola grande opera d’arte; mentre a pagina 215, l’effigie di Dora Maar, di Picasso, sembra un atto di vendetta, perché questo volto terrorizzato e terrificante del 1943 sembra di molti anni prima, quando egli cercava di dare vita ai suoi revival dell’arte negra.

Le scelte di qualità del nostro amico sono sempre singolari, e qui si insiste nel mettere in evidenza il suo diritto a lasciarsi andare in quel che vuole. Talvolta sceglie il kitsch, talaltra una sorta di horror, qualche volta vuole sorprendere, persino irritare qua e là. Ma tutto è pensato con attenzione. A me non ha sorpreso che volesse includere diverse stampe del Piranesi, dei più morbosi incisori fiamminghi e tedeschi, con a capo Dürer, persino un Rembrandt e tre violentissimi Caprichos di Goya. Propone anche un riduttore della follia delle Carceri piranesiane che non conoscevo, Vik Muniz, e per finire tre coltellacci di Andy Warhol, che sembrano recuperati al museo della Morgue di Vienna: sono, si spiega a p. 346, una pittura polimerica sintetica su tela di 228,6 per 177,8 centimetri, databile al 1961-’62. Seguendo la legge del libero arbitro, Sperone ha preferito non includere Giorgio Morandi: la decisione non mi sorprende.