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Spero, il Vietnam con gli occhi di Artaud

Spero, il Vietnam con gli occhi di ArtaudNancy Spero, "Male Bomb", 1966, dalle "War Series", New York, New School University

Le immagini della guerra: Nancy Spero 1965, il trauma della guerra in tv spinge l'artista americana a una torsione liberatoria: femminismo, Colpa, fragilità cartacea. Maturò la denuncia accanto a Leon Golub, artista e marito. «Bomb Male», «Bomb Sperm»... titoli dai fogli lacerati e sanguinanti delle «War Series»

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 21 agosto 2022
Leon Golub, “Vietnam II”, part., 1973, Londra, Tate Gallery

«Ho perso la mia innocenza di cittadina americana vedendo alla tv le immagini che arrivavano dal Vietnam». Così Nancy Spero sintetizzava la svolta umanamente e artisticamente decisiva della sua vita: era il 1964, dopo una lunga permanenza in Europa iniziata nel 1956 aveva deciso di rientrare negli Stati Uniti con il marito Leon Golub, lui pure artista, e i loro tre figli.
Si era alla vigilia della drammatica escalation dell’impegno militare americano in Vietnam: il 2 marzo 1965 sarebbe infatti iniziato il piano di attacchi aerei sistematici sulle strutture logistiche e militari del Nord. Gli aerei decollavano dalle basi aeree americane in via di organizzazione in Thailandia e dalle portaerei posizionate al largo delle coste nordvietnamite. «Prima di allora facevo quadri neri, i “Black Paintings”, con immagini di amanti o di madri con i bambini, oli su tela, disegni o dipinti su carta. E poi ho visto tutto questo in televisione, uno spettacolo orribile che nemmeno veniva coperto o censurato: immagini di bombardamenti di villaggi vietnamiti da parte di elicotteri. Ricordo l’immagine terribile di una donna che scappava dalla sua casa, che era stata incendiata. Gli elicotteri volavano a bassa quota, bombardando le persone che scappavano dalle loro case. E noi eravamo la causa di tutto questo».
La sottolineatura sui Black Paintings non è peregrina: fin da quella sua prima stagione europea la pittura di Spero era caratterizzata da un’indagine sui corpi, intesi nella loro dimensione più intima e libera da preoccupazioni formalistiche. Sulle grandi tele si distendevano figure, sempre in coppia, messe a nudo sia nell’accezione fisica che in quella psichica. Spero negli anni parigini aveva frequentato l’Ecole Nationale des Beaux arts e poi l’atelier di André Lothe, l’epigono del cubismo. Ma su di lei avevano lasciato un segno ben più decisivo e profondo la lettura dei testi e la biografia di Antonin Artaud: la sua rabbia e le sue turbolenze mentali avevano profondamente commosso Spero, che aveva finito con l’appropriarsi del suo linguaggio estremo anche per esprimere ed esorcizzare la propria rabbia sia come cittadina americana sia come donna artista. Spiegava di aver adottato la voce di Artaud perché «non conosceva nulla di così estremo». Era anche un modo per Spero di relazionarsi con il proprio dolore; infatti nel 1960 le era stata diagnosticata un’artrite reumatoide.
Il riferimento ad Artaud resterà fondamentale in tutto il percorso di Nancy Spero, in particolare nel momento del suo rientro definitivo negli Stati Uniti nel 1964. Restando fedele all’idea artaudiana che l’arte sia documentazione e testimonianza di una costituiva fragilità degli esseri, Spero si era sottratta ai dogmi del modernismo dominante nella New York degli anni sessanta. La scelta della carta come supporto del proprio lavoro pittorico, con la conseguente rinuncia alle tele dipinte a olio della sua prima stagione, era un’affermazione dell’opera in quanto artefatto effimero e fragile, un modo di opporsi a un’arte che, anche sulla rinnovata scena newyorkese, continuava a concepirsi come esercizio di potenza in accezione fortemente maschile.
Spero aveva fatto proprie le rivendicazioni critiche di Lucy Lippard e la sua teorizzazione dell’«oggetto d’arte smaterializzata»: smaterializzata era la carta, supporto svalutato e antiretorico, per di più adatto a un fare veloce, libero e femminista. Al contrario l’olio e la tela erano associati a una storia maschilista della pittura. Spiegava: «In quel periodo ho iniziato a pensare: non voglio che le mie cose siano così permanenti, così importanti».
Sono tutti su carta i tre cicli che Nancy Spero realizzò dopo il ritorno a New York: i due cicli dedicati ad Artaud (Artaud Paintings e Codex Artaud) e The War Series, le 150 opere di denuncia della guerra del Vietnam. In tutti questi lavori la delicatezza e la friabilità dei supporti cartacei diventano codici carichi di significato; gli strappi, le lacerazioni e le pieghe dei fogli contribuiscono a comunicare la turbolenza intrinseca alle immagini, con la sequenza delle figure frammentate e, nel caso delle opere su Artaud, degli ansiosi frammenti di testo.
In realtà più che opera di denuncia, The War Series rappresenta un «personale tentativo di esorcismo», come l’artista sottolinea nel breve testo introduttivo al ciclo. La Guerra del Vietnam è riflesso di una civiltà di cui Nancy Spero sente di far parte e quando, sempre in quel testo, parla delle bombe ne parla con il possessivo «our»: le nostre bombe. La guerra e i suoi strumenti di offesa, nelle carte di Spero prendono una dimensione antropomorfica o animalesca. Gli elicotteri, mezzo simbolo delle incursioni sui villaggi vietnamiti, sono «primeval (prime-evil) bird», o insetti mostruosi che seminano distruzione. Davanti allo sguardo di Nancy Spore, la guerra viene messa spietatamente a nudo e scopre la sua natura fallica: «esercizio iperbolico di autorappresentazione del pene». I titoli delle carte non lasciano spazio a dubbi: Androginous Bomb and Victims, Sperm Bomb, The Male Bomb, Male Bomb – Svastika.
The Mal Bomb, una figura statuaria con due teste e cinque falli seminatori di terrore, era stata l’opera scelta per la copertina del primo numero di «Caterpillar», la rivista fondata dal poeta Clayton Eshleman nell’ottobre 1967. A quella data le War Series erano agli inizi. In questa rappresentazione tragica e orgiastica della guerra, che lascia il suo segno fisico sulla carta tormentata e sporcata da sbavature sanguinanti, che si vieta qualunque scorciatoia ideologica, si capisce come Spero cerchi di espungere innanzitutto da se stessa il bubbone di una colpa: non le basta dichiarare la sua opposizione alla guerra, per liberarsi dal fantasma che l’assedia in quanto figlia di una nazione che ha generato quella guerra. Non c’è nessuna tentazione manichea nel suo lavoro, tant’è che lei, femminista radicale, non si rifugia in una lettura solo maschile del conflitto e chiama in causa la sua identità di genere: c’è una Female Bomb e ci sono i Female Elicopthers che ronzano come insetti rozzi e letali sui villaggi vietnamiti.
Anche il marito Leon Golub, a cui lei si riconosce debitrice per aver indotto in lei una coscienza politica, aveva lavorato in quegli anni sul tema della guerra, con identica radicalità polemica. Le sue immagini restano però dentro un alveo più tradizionale, con la demarcazione sempre netta tra aggressori e vittime. Anche in Spero c’è spazio per le vittime, ma la loro identità è brutalmente annientata, fisicamente schiacciata e risucchiata nella spirale demoniaca della guerra. C’è un lavoro, Victims, in cui si vedono sfilare dei corpi ridotti a sagome allungate, arse e assottigliate, in uno scenario da oltremondo dantesco: Nancy Spero ha la precisa e spietata coscienza che neanche lo schierarsi dalla parte dei destinatari delle bombe potrebbe restituirle quell’innocenza perduta davanti alle immagini spudoratamente diffuse dalla tv.
Nel presentare le War Series in un volume edito nel 2003, Robert Storr tracciava un parallelo tra questo ciclo e i celebri Disastri della guerra, le 83 incisioni realizzate da Francisco Goya tra 1810 e 1820. Anche Goya aveva dovuto fare i conti con il livellamento brutale degli ideali liberali prodotto dalla perversione della guerra: nei suoi Disastri non c’è più spazio per distinguere il bene dal male, le legittime ragioni di ribaltare un vecchio potere corrotto e dispotico da quelle del potere stesso. Quello di Goya è uno sguardo spietato così com’è spietata la sentenza della guerra, che qualunque esito abbia genera, come sottolinea Storr, «la devastazione della speranza».
Per Nancy Spero l’unica sponda possibile restava quella di Artaud: nel 1973, all’AIR Gallery di New York, la prima galleria femminista che lei stessa aveva aperto con una cooperativa di artiste, esponeva il Codex Artaud, un insieme di disegni, accompagnati da testi trascritti del grande artista francese, che si sviluppavano su lunghi rotoli di carta simili a manoscritti medievali, che occupavano tutte le pareti. Un esercizio per liberarsi, come indicava Artaud a se stesso e a quelle «anime che gli volevano bene», per resistere a un mondo servile e asfissiante che «si compiace di questa asfissia».

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