ExtraTerrestre

«Speriamo nei territori, ma umani»

Intervista Una riflessione con Vinicio Capossela sulla possibilità che l’arte e la cultura trasformino le aree interne più «deboli» da contenitori di eventi a luoghi creatori di lavoro e movimento. Il caso SponzFest di Calitri (Av)

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 17 settembre 2020

L’ottava edizione dello SponzFest (25-30 agosto, dedicato all’acqua) diretto da Vinicio Capossela nei paesi dell’Alta Irpinia, con escursioni nei territori vicini, è andata a buon fine nonostante l’edizione «pandemica».

Naturalmente è l’ora di interrogarsi sullo stato della cultura e delle manifestazioni artistiche in Italia, sulla trasformazione da mettere in atto. Per esempio, chiedersi se «i consumi fine a se stessi» siano ancora produttori di progresso e non invece il contrario; se il rilancio artistico-culturale in Italia possa prescindere dalle strutture stabili; se insomma i territori, a partire da quelli più deboli della fascia montana, possano essere soltanto contenitori di manifestazioni e non invece luoghi in cui la cultura e l’arte siano insieme lavoro e consumo, struttura e manifestazioni, stabilità e movimento.

Lo SponzFest, sempre con attenzione all’ambiente, ha prodotto anche un risultato memorabile: il lungo festival (12 giorni) dedicato alla ferrovia dismessa Rocchetta (Fg)-Avellino nel 2014, con un memorabile concerto di otto ore e artisti provenienti da ogni dove, convinse la Regione ad aprire la tratta per fini turistici. Un caso raro di impegno artistico che ha effetti politici, a dimostrazione che l’arte può essere dirompente se rinuncia al ruolo di «passatempo», se aiuta le persone a liberarsi da una pandemia più grave del coronavirus: quella di essere ridotti a consumatori in una vita priva di senso e finalità collettive. Da qui parte la conversazione con Capossela, da quel treno del tutto metaforico.

Forse sarebbe il caso di ripartire da dove si è vinto, da quella spina dorsale del territorio, per richiedere una direzione artistica delle manifestazioni culturali della ferrovia turistica e magari una forte struttura musicale alla stazione di Cairano, il borgo dell’Alta Irpinia che hai descritto nel tuo libro come «paese dei coppoloni».

Sarebbe meraviglioso, così come sarebbe altrettanto meravigliosa la stazione di Cairano come grande centro musicale. Ma non mi è stato fatto nessun invito in tal senso. Assieme agli amici con cui costruisco la rassegna ho sempre pensato di rendere il territorio vero protagonista di questo festival. Naturalmente tu parli di cose più grandi e io ti ripeto: sarebbe assolutamente meraviglioso.

Si ritorna a parlare dopo il virus di un raccordo tra zone montane e pianura in Italia ma i paesi dell’interno stentano a crederci. Nonostante siano pieni di palazzi pubblici vuoti che potrebbero essere invece strutture culturali forti in grado di invertire la tendenza al consumo occasionale.

I festival hanno il limite di essere, per dirla con l’ironia di Goffredo Fofi, il narcisismo degli artisti. Tuttavia le cose sono complesse perché parliamo di territori dove, a fronte di tanti contenitori vuoti, ci sono poche persone e molti giovani emigrati. Dopo il covid ci sono stati molti più visitatori nelle aree interne, questo sembra paradossale ma invece ubbidisce alla natura stessa delle aree interne. Quando c’è stata una battaglia da fare ci si è sempre ritirati nella selva, nella montagna: da Fidel Castro alla Resistenza si va sempre nell’interno a cercare riparo. Credo che le terre dell’interno siano il nostro polmone vivo, per questo è decisivo non solo non inquinarle ma non abbandonarle. Giovanna Marini quando è venuta da noi nel 2014 disse: fra alcuni anni queste terre saranno prese d’assalto da cittadini impauriti. Naturalmente ci vuole un progetto perché un territorio viva.

Tu hai dedicato sempre ogni edizione all’ambiente in tutte le sue specificità, dall’acqua ai boschi, dalle ferrovie alle ciclovie.

Beh, anche l’ambiente umano per la verità. Per esempio la memoria della cultura popolare. L’umano è la prima cosa. Le zone interne sono state attraversate da terremoti e altre sciagure quindi la natura non è di per sé buona. Noi non parliamo di una natura buona e dell’uomo cattivo. E’ dall’ambientalismo antropologico che può sorgere un ambientalismo vero e proprio.

Ma qual è la tua idea di nuovo sviluppo di queste terre?

Secondo me la vocazione dell’interno è un’agricoltura realizzata in modo sano. E’ un progetto che richiede delle scelte non solo economiche ma politiche. Dentro un discorso simile penso che un festival possa aiutare con dei punti di scambio, di incontro e forse di presa di coscienza di alcune cose. Però, ripeto, poi ci vuole un progetto più ampio anche in termini territoriali.

Continuerai a riscoprire le radici nelle prossime edizioni del Fest?

Ma le radici non servono per guardarsi i piedi, servono per andare in alto, servono per espandersi. La radice va tenuta presente ma sempre proiettata nella contemporaneità e anche possibilmente nel futuro. Io lo penso perché lo vivo, a me si apre proprio la testa quando sono in questi luoghi dei miei genitori. Però è anche vero che viene un senso atavico di abbattimento, lo stesso di cui parlava Giustino Fortunato, quella specie di malinconia depressiva che è una cosa non semplice.

A parte che viviamo in un’epoca in cui non c’è più un dibattito politico culturalmente forte, non credi che tutto dipenda da una mancanza di autonomia, soprattutto in luoghi del Sud che non sono mai riusciti a liberarsi da una antica subalternità?

Ecco, forse è quello spossamento di cui parlavo prima. Per la verità ho conosciuto tanti giovani che sono privi di questa subalternità. Oggi c’è una cultura globale che arriva alle persone, c’è uno scambio. Questa subalternità oggi c’è fino a un certo punto. L’elemento di radice era molto più forte nella generazione dei miei genitori, però è vero che ci sono sempre ambiguità che si presentano.

Dal dopoguerra in poi abbiamo avuto tante rassegne e festival, non credi sia venuto il tempo di considerare la cultura e l’arte come un investimento, una «fabbrica»? E del resto anche tu dici che lo SponzFest non è merce o marchio ma esperienza.

Ci vuole la politica, e soprattutto ci vorrebbe una rivoluzione (ride, ndr). Le cose devono anche partire un po’ dalle persone che vivono nei territori. Noi siamo un gruppo sparso per l’Italia e solo alcuni vivono tra Calitri e dintorni. Il festival poi assorbe sempre grandi energie. Insomma sarebbe bello vedere sorgere strutture culturali che operano tutto l’anno. Per quel che mi riguarda sarebbe un sogno straordinario.

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