Nella premessa a Figlie e madri, Joyce Carol Oates sceglie come esergo i versi di Anne Sexton: «Una donna è sua madre/ Questo è l’essenziale». No, «una donna non è sua madre», riflette Oates, e tuttavia «questi versi secchi e dogmatici» le continuano a risuonare nella mente «come una maledizione o una benedizione, come una spiegazione o un mistero». Potrebbe essere per questa ragione se «madre» continua a essere «oggetto di una riflessione incessante e frustrante» come sembrano indicarci i numerosi testi, soprattutto romanzi, di autrici (ma anche autori), apparsi negli ultimi anni in Italia. Con le sue luci e ombre, la figura materna è al centro dell’ultimo romanzo di Maria Grazia Calandrone, Dove non mi hai portata (Einaudi, pp. 256, euro 19.50) e di due esordi, La luce che pioveva di Giuliana Zeppegno (L’orma, pp. 168, euro 18) e La paura ferisce come un coltello arrugginito di Giulia Scomazzon (Nottetempo, pp. 208, euro 16). In tutti e tre i testi le autrici, nel ruolo di figlie, si muovono alla ricerca della propria madre.

IN «DOVE NON MI HAI PORTATA» Calandrone tenta di ricostruire «con il metodo di una forsennata scienza» la breve vita di Lucia, la madre biologica che nel 1965 l’abbandonò di otto mesi nel parco di Villa Borghese per poi morire suicida nel Tevere insieme al compagno. Non ci sono ricordi nel romanzo di Calandrone, se non quelli degli altri, ma fotografie, articoli di giornale, cartelle cliniche, autopsie: «puri fatti» cui l’autrice si aggrappa nella speranza che la verità sulla madre riaffiori, per farla rinascere, per restituirle dignità. Obbligata a sposarsi con il «buffone del paese», la madre Lucia s’innamora di Giuseppe, un uomo (con moglie e figli) che potrebbe avere l’età di suo padre; e scappa con lui, incinta, a Milano, dove in un primo momento la figlia illegittima le verrà tolta. All’onta di essere considerata un’adultera, si somma così la ferita di essere ritenuta una madre indegna.

Sebbene Calandrone si affidi alla meticolosa ricostruzione storica dei fatti, di quanto è successo in quegli anni, tutto ciò non le basta: «vorrei esistere dentro la sera tiepida come un albero, essere solo vuoto che raccoglie la voce degli altri e dei pianeti. Invece, ho ancora tanti sentimenti». Così si fa largo nella pagina la poesia, quella di Caproni, Pasolini, Sereni, nonché quella dell’autrice stessa che nasce poeta prima di esser scrittrice. E improvvisi a capo trasformano inaspettatamente la prosa in versi.

Al contrario di Dove non mi hai portata, La luce che pioveva di Zeppegno pullula di ricordi: sono però quelli che la madre Maria le ha raccontato parlando della sua vita. Se il romanzo di Calandrone parte come un’indagine, quello di Zeppegno è un’intima rievocazione di una figlia che si rivolge alla madre scegliendo di narrare il suo vissuto in seconda persona; accade che in quel «tu» – «ciò che ricordo dei tuoi racconti» ci dice – il lettore rischi di non capire fino in fondo se a parlare sia la madre o la figlia, o la madre della madre, e finisca per entrare in una sorta di vertigine, che è la stessa che prova l’autrice, e che ci fa «sentire che portiamo dentro, in qualche modo misterioso, sentimenti altrui, luoghi mai visti, lingue dimenticate».

Ne La paura ferisce come un coltello arrugginito di Scomazzon sono pochissimi i ricordi e sembra all’autrice «che quasi tutti contengano qualcosa di spiacevole, come un fondo di rimorso»: rimossi per proteggersi dal dolore della morte della madre Roberta, colpita prematuramente dall’Aids pochi giorni prima che la figlia compisse otto anni. Anche qui, come in Calandrone, c’è un lutto, ma è un «lutto sospeso»: il non aver potuto partecipare al funerale della madre ha impedito alla figlia di elaborarlo. Anche qui c’è la volontà «di conoscere o rincontrare i testimoni della sua vita troppo breve», di trovare un documento a cui aggrapparsi «per afferrare qualcosa di tangibile che è esistito mentre esisteva lei»; anche qui c’è il tentativo di salvare l’immagine della madre dall’oblio: «Ho voluto mostrare, in copertina, una foto di mia madre, perché così ci sarà una traccia indubitabile di lei, libera dalle mie deformazioni sentimentali».

QUELLA DI SCOMAZZON è la confessione lucida e toccante di una figlia che non riesce a ricordare la madre, a prenderne le distanze: «Quando morirò voglio che le mie ceneri siano mescolate a quelle di mia madre, così ci potremo ricordare reciprocamente, senza scomodare gli altri».
Le madri Lucia, Maria, Roberta rappresentano tre generazioni diverse (anni trenta, anni cinquanta, anni sessanta) e anche le loro storie sono molto diverse. Eppure vi sono atmosfere, atteggiamenti, sorti condivise che avvicinano questi tre romanzi. Lucia e Maria hanno entrambe un’origine contadina: il racconto della loro infanzia – una in una masseria del Molise, l’altra in una cascina del Piemonte – è avvolto dalla durezza del lavoro nei campi, dalle piccole e grandi ingiustizie, dal mistero delle cose e dal fascino impenetrabile del dialetto.

La loro è una storia di emancipazione tutta al femminile: una interrotta tragicamente a Roma, l’altra portata avanti con costanza, pazienza, umiltà. Sebbene Maria non abbia condiviso una fine tragica e prematura come Lucia e Roberta, ha però dovuto affrontare le angherie della suocera, le umiliazioni sul lavoro e soprattutto «l’inaccettabile, il senza nome», ovvero la malattia mentale del marito, quel padre a cui Zeppegno dedica, non a caso, il suo romanzo.
Su tutte e tre splende «la definitiva formula alchemica dantesca» dell’intelletto d’amore che Calandrone attribuisce a Lucia, una sorta di intelligenza intuitiva che consente a queste madri di sentire gli altri e insieme proteggerli, anche da se stesse e dalla propria morte. È forse quello che intendeva dire María Zambrano quando scrisse che è «proprio dei sentimenti non essere analizzati, bensì espressi».

NELLE PRIME PAGINE dei tre romanzi, in una sorta di premessa che vale anche come dichiarazione di poetica, le autrici chiariscono i motivi che le hanno mosse a scrivere: «Scrivo questo libro» afferma Calandrone «perché mia madre diventi reale. Scrivo questo libro per strappare alla terra l’odore di mia madre».
«Ho voluto scrivere le cose che mi hai detto. Le storie le fantasie, le immagini che la tua memoria ha scelto perché continuassero a esistere, nel suo lungo, oscuro lavorio», rivela Zeppegno, «perché è necessario dimenticare, lasciare andare, reinventare; ma lo è altrettanto mantenere».

«Devo provare a scrivere qualcosa su mia madre», confessa Scomazzon lasciandoci intendere la speranza nella funzione riparatrice della scrittura.
Può la scrittura riempire il vuoto del proprio lutto? Far rinascere il proprio passato? Difendere dall’oblio? Nel caso di Maria Grazia Calandrone e Giuliana Zeppegno si direbbe di sì.

Più complesso rispondere per Giulia Scomazzon, che ci racconta uno di quei sogni in cui si ritorna scolari e dove si accorge di non riuscire a svolgere una traccia sulla propria madre perché c’è «troppo Giulia» e «troppo poco Roberta». Tuttavia è proprio nell’ostinata esposizione di sé, nell’insistenza con cui nel libro sottolinea l’importanza di essere vista, che Giulia riesce a prendere le distanze dalla madre scomparsa. E a sorpresa, mentre continua a cercarla, a restituirle con «parole semplici e ruvide» la sua immagine perduta è il padre, che lei incrocia a ogni passo «come un inciampo». Ma sarà solo la scrittura di Giulia a liberare finalmente quell’immagine dall’invisibilità a cui l’Aids l’aveva condannata.