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Spari contro gli agenti, la rabbia di Ferguson

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Gli spari che nella notte di ieri hanno colpito due agenti di polizia sono solo l’ultimo episodio che ha sconvolto Ferguson, un quartiere nero nei il sobborghi di St Louis, […]

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 13 marzo 2015
Luca CeladaLOS ANGELES

Gli spari che nella notte di ieri hanno colpito due agenti di polizia sono solo l’ultimo episodio che ha sconvolto Ferguson, un quartiere nero nei il sobborghi di St Louis, Missouri.

Tutto è cominciato con l’uccisione dell’adolescente Mike Brown lo scorso agosto. Il diciottenne afroamericano allora venne stroncato dai proiettili dell’agente bianco Darren Wilson, mentre con le mani alzate tentava di arrendersi sulla strada davanti casa al poliziotto che lo aveva inseguito dopo una colluttazione. La morte di Brown aveva fatto traboccare un vaso ormai colmo provocando la spontanea rivolta della cittadinanza esasperata. La repressione della polizia aveva contribuito a fare di Ferguson il simbolo nazionale della piaga dei neri, uccisi in America a centinaia ogni anno, dalla polizia.

Il movimento nato dai cortei dei cittadini esasperati della città e la rabbia esplosa nuovamente nelle strade dopo l’esonero dell’agente responsabile a novembre, ha rinnovato il dibattito nazionale sul razzismo delle istituzioni.

Nello scorso anno Ferguson è diventata sinonimo di un movimento di protesta contro l’ingiustizia razzista come Selma lo era stata per il movimento per i diritti civili degli anni sessanta. Il nome di Ferguson è risuonato negli slogan scanditi a New York, Seattle, Los Angeles, Oakland, Miami e le altre città americane, come emblema di un nuovo movimento di emancipazione razziale. Significativamente i fatti di Ferguson sono avvenuti durante il mandato del primo presidente afroamericano. Obama, preoccupato di non offrire il fianco ad accuse di faziosità, è stato spesso criticato da sinistra per una eccessiva timidezza proprio nell’affrontare temi di discriminazione razziale.

Dopo l’uccisione di Brown il presidente si è mosso con caratteristica cautela limitandosi a generici inviti «alla calma». Solo dopo l’imposizione dello stato d’emergenza, con Ferguson presidiata ormai dalla guardia nazionale Obama è parso mettersi al passo con gli eventi, inviando sul posto il suo ministro della giustizia.

A differenza del presidente, Eric Holder, primo attorney general afroamericano, è stato fautore assai più esplicito della necessità di riformare un sistema giudiziario intrinsecamente razzista. Holder che ha promosso inchieste federali su numerosi casi di uccisioni di giovani neri, dopo Ferguson ha condannato la militarizzazione della polizia.

Parlando del «circolo vizioso di povertà, criminalizzazione e carcerazione che intrappola troppi americani», Holder è stato il primo ministro a rompere l’omertà istituzionale, spingendosi a definire gli Usa «un paese di codardi» per la sistematica rimozione dei problemi razziali.

Lunedì scorso è stato reso noto il rapporto sul Ferguson police department chiesto da Holder agli inquirenti del dipartimento di giustizia. Dalle oltre 100 pagine del documento emerge il quadro di una polizia fuori controllo, una forza quasi interamente bianca dedita ad assediare la comunità (nera al 67%) che avrebbe dovuto proteggere. Il rapporto documenta la lista di vessazioni dei poliziotti ai danni dei cittadini che ha determinato quello che Holder ha definito «il rapporto di profonda diffidenza e ostilità fra polizia e la comunità».

Il rapporto ministeriale parla di fermi arbitrari e pretestuosi, per «rifiuto di ubbidienza» o «comportamento sospettoso» usate per motivare l’arresto di cittadini afroamericani. Dal 2012 al 2014 i neri a Ferguson hanno costituito il 93% degli arresti, l’85% di fermati alla guida e il 90% dei multati.

In particolare proprio l’uso spropositato delle multe ai danni dei neri dipingono secondo Holder il quadro della polizia quasi come un associazione a delinquere, dedita per lucro a pratiche anticostituzionali. Un giudizio corroborato da una dettagliata casistica di angherie – dalla carcerazione di homeless per mancato pagamento di multe, alle sanzioni applicate contemporaneamente per «mancanza di patente» e «patente scaduta».

L’uccisione di Mike Brown ha in sostanza rivelato una quotidianità di ordinario razzismo di cui la tragedia era plausibile, se non inevitabile, conseguenza. Una cultura perniciosa confermata anche dalle numerose email trovate dagli inquirenti nei computer della questura. Fra queste il messaggio in cui si auspicano premi per aborti di afroamericani, la foto di aborigine africane definita «riunione di liceo di Michelle Obama» o quella del presidente raffigurato come scimmia.

Un quadro di segregazionismo paradigmatico con un imprimatur ministeriale che non poteva che avere pesanti ripercussioni. L’altroieri Thomas Jackson, il capo della polizia che finora aveva resistito ogni istanza di riforma, ha infine formalizzato le dimissioni (seguite a quelle di tre agenti e un giudice municipale).

L’annuncio è stato l’occasione mercoledì sera per l’ultimo picchetto davanti al commissariato per chiedere la dissoluzione dell’intero dipartimento. Al termine della protesta ignoti hanno esploso i colpi che hanno ferito i due agenti.

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