Spagnoli a Napoli, cosmopoliti inebriati nella palestra dell’occhio
Diego de Siloe, San Sebastián, ca. 1525, Barbadillo de Herreros (Burgos), chiesa della Visitación de Nuestra Señora a Santa Isabel
Alias Domenica

Spagnoli a Napoli, cosmopoliti inebriati nella palestra dell’occhio

A Napoli, Capodimonte Una mostra esemplare, a colmare lacune nel persistente degrado del patrimonio partenopeo: Riccardo Naldi e Andrea Zezza ricostruiscono un capitolo fascinoso di primo Cinquecento, dal maestro di Bolea a Fernández, da Ordóñez a Machuca
Pubblicato più di un anno faEdizione del 18 giugno 2023

Dopo trattati, tentativi di spartizione tra francesi e spagnoli e una guerra, dal 1503 il Regno di Napoli passa sotto il dominio della Corona di Spagna. È qua che comincia il racconto de Gli spagnoli a Napoli. Il Rinascimento meridionale, a cura di Riccardo Naldi e Andrea Zezza, a Capodimonte fino al 25 giugno. A Napoli la mostra è alla sua seconda versione (della prima, al Prado fino al 18 ottobre 2022, aveva scritto Tommaso Mozzati su queste stesse pagine): ci sono varianti (alcune gustosissime) e un allestimento davvero riuscito dell’architetto Francisco Bocanegra, ma ciò che preme sottolineare è il peso che un’esposizione del genere ha nel panorama nazionale. A Napoli, a maggior ragione. Mentre lo stesso museo di Capodimonte è in dismissione per lavori di restauro e il Museo Archeologico Nazionale è penosamente costellato di vuoti e riproduzioni di opere in prestito (ma il prezzo del biglietto rimane alto), e molte delle chiese della città restano serrate, buie, puntellate o impacchettate da reti di sicurezza, la mostra di Naldi e Zezza si muove sul fronte opposto, cercando di colmare le lacune in un dialogo continuo con la città, in una foresta di riferimenti incrociati possibili grazie a una poderosa concertazione critica che per molti apparirà nuova.

Poco più di quarant’anni fa Giovanni Previtali lamentava lo stato d’incuria per cui le opere utili a uno studio d’insieme sulla pittura del Cinquecento nell’Italia meridionale erano conservate «in chiese fatiscenti e cappelle abbandonate», e quasi tutte «in condizioni del più squallido abbandono». Di fatto, negli anni settanta del secolo scorso uno studio di quel tipo era «opera di pioniere». Da allora non tutto, ma molto è cambiato. Ci sono stati restauri, scoperte, campagne fotografiche e studi specialistici, ma non ci si può ancora sedere: il lento degrado va frenato da una sorveglianza costante.

La mostra spinge in questa direzione, presentando il tema non solo agli specialisti, e dando una bella scossa a quell’ombra di sfortuna che si deve in buona parte a Vasari. Basti la causticità del giudizio fatto cadere nella Vita di Polidoro da Caravaggio, dove si racconta come l’artista, arrivato a Napoli, «fu per morirvisi di fame» perché i napoletani, «poco curiosi delle cose eccellenti di pittura», non gli commissionavano nulla. Questa cappa cala sul Rinascimento a Napoli per quasi tutto il Novecento; se qualcosa è stato riconosciuto, si è quasi sempre ripiegato sugli aggiornamenti in senso fiorentino, mentre la questione degli artisti spagnoli è rimasta sostanzialmente poco sviluppata, poco chiarita, fino a tempi più recenti.

Per il tratto di storia che da quel 1503 corre lungo i tre decenni seguenti si è anche molto sfruttata la triangolazione, che gli storici dell’arte conoscono bene, tra il veneziano Marcantonio Michiel, probabilmente il maggior professionista – se così si può dire – della critica d’arte di quel momento, e gli umanisti napoletani Pietro Summonte e Jacopo Sannazzaro. Dopo almeno un incontro, a Napoli nel marzo del 1519, dialoghi e amicizia continuano per lettera. Per fare un ritratto della Napoli artistica ci si è quindi per molto tempo affidati alla missiva in cui Summonte, nel 1524, illustra a Michiel lo stato delle arti nella città partenopea. Nella mostra di Capodimonte si riconoscono molte delle personalità citate da Summonte e prendono corpo le linee evolutive delineate dall’umanista nei passaggi di consegne, rapidissimi, da una generazione di artisti e quella successiva.

In uno scenario arricchito di nomi e di opere accostati secondo precise coordinate figurative, finisce che i pittori spagnoli che attraversano la penisola e si stanziano a Napoli, dal Maestro del retablo di Bolea in qua, possano funzionare anche come perfette cartine di tornasole per capire che cosa sia stato davvero importante, e che cosa rendeva i centri della penisola italiana così attrattivi. Lo sforzo è soprattutto nella lettura stilistica: per ritrovare, per esempio nell’Adorazione del Bambino del Museo Capitolare di Atri, la cultura di Pinturicchio tanto cara allo spagnolo papa Borgia, ma anche l’influenza di Perugino, certamente più moderno e internazionale; o l’assimilazione prima dei fatti milanesi – e quindi Bramante, Bramantino e Zenale –, poi di quelli romani – Raffaello e Michelangelo –, in Pedro Fernández; o ancora Raffaello e Michelangelo declinati nelle sculture di Bartolomé Ordóñez e nei dipinti di Pedro Machuca, e via di seguito.

In mostra ogni stanza è una palestra in cui si allena lo sguardo: si osservano le vette, come la Madonna del pesce di Raffaello (dal Prado, ma realizzata per San Domenico Maggiore), e si tirano le conseguenze guardando le opere nelle pareti contigue, dove su questi esempi monta una scuola locale autonoma, con Andrea da Salerno, Marco Cardisco, Giovanni da Nola eccetera. Calati nel problema, ci si può spingere a immaginare i commenti degli artisti spagnoli di fronte agli arazzi Trivulzio o sotto la volta sistina o nel chiostro di Santa Maria della Pace. Assorbono tutto, come inebriati, e nelle loro rielaborazioni smarcate non c’è la paura di essere giudicati, né il freno dell’ossequio dovuto ai propri maestri.

Con l’assedio francese del 1528 e la successiva crisi politica, quel momento di felice cosmopolitismo si esaurisce. Gli artisti spagnoli «italianati» – rubo l’aggettivo a Summonte – tornano in patria. L’ultima sala è dedicata alle opere create in questo momento. Qua e là si sente ancora l’aria di Lombardia e si vede la luce di Roma. Fuori dal museo, invece, il cielo sul golfo si apre dopo un temporale, e ricomincia a piovere solo una volta arrivati in uno dei possibili agganci cittadini all’esposizione, in Santi Severino e Sossio. Nell’ambiente che collega navata destra e sagrestia sono posti, uno di fronte all’altro, il sepolcro di Giovan Battista Cicaro del toscano Andrea Ferrucci e quello di Andrea Bonifacio scolpito da Ordóñez. Di qua emerge un dolore vissuto interiormente, modulato dall’umanesimo letterario di Sannazzaro, autore del testo epigrafico, di là un tumulto sentimentale espresso per figure, con quegli indimenticabili genietti disfatti dal pianto e il Seppellimento gonfiato dal vento e dalla disperazione, come in Donatello. Sono due momenti contigui e altissimi, visibili a chiunque voglia esplorarli, anche nella placida penombra di un pomeriggio piovoso.

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