Cultura

Soyinka, inferno purgatorio esilio

Soyinka, inferno purgatorio esilioUna rielaborazione da un'incisione di Gustavo Doré

E altro è da veder che tu non vedi Come gli antichi eroi del mito, e lo stesso poeta fiorentino, si rifà viandante agli inferi per ricostruire il senso dell’esperienza

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 24 marzo 2021

«Ci abbracciamo,/il mondo e io, in grandi infinitudini./Io mi immergo in quella parte di mondo/che mi lambisce il piede, e però subisco la pioggia di chiodi/che scava, dentro, fino al cuore archetipale/di tutti i viandanti solitari». (Da «Ulysses», A Shuttle in the Crypt, 27) Così riflette il poeta nigeriano Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura 1986, sprofondato in un cupo carcere durante la guerra civile. Nello spazio tombale misura il tempo e costruisce il viaggio della mente che, attraversando il trauma e le tenebre, lo riporterà alla luce.

In tale percorso di catàbasi, di discesa nell’oltretomba, ha come segreto compagno Dante e la Commedia. Artista della parola ancor prima che scrittore, immaginifico creatore di metafore, sontuoso autore teatrale, romanziere e saggista, Wole Soyinka fa parte della generazione di africani nati in epoca coloniale che hanno vissuto prima la stagione esaltante delle indipendenze e quindi la crisi della nuova Africa, l’orrore della guerra civile, la dittatura che costringerà all’esilio il poeta. «L’uomo muore in tutti coloro che tacciono dinanzi alla tirannia», scriverà l’esule Soyinka, strenuo difensore di diritti umani e civili, partecipe intenso e coraggioso delle vicende politiche della Nigeria. Un uomo così impegnato e colto non poteva non sentirsi a suo modo vicino a Dante nella fierezza del carattere e nella passione civile, e noi italiani lo avvertiamo tale anche nella tonalità sardonica della voce tagliente, nell’invettiva contro ingiustizia e violenza, a ludibrio delle corrotte classi dirigenti e a sarcastico commento delle vicende umane.

Ancor più interessante, tuttavia, è quanto lo accomuna a Dante nel percorso segreto e doloroso dell’artista, nella trasformazione alchemica dell’esperienza in immagine e metafora. Il trauma della guerra lo segna nel profondo, arrestandone il successo teatrale in meteorica ascesa. Durante ventisette mesi di prigionia Soyinka parte per un viaggio dell’immaginazione che, rilasciato senza processo, filerà in racconto a partire dal 1970. Come gli antichi eroi del mito – e lo stesso poeta fiorentino – l’artista si rifà viandante agli inferi per cercare, interrogare, ricostruire il senso dell’esperienza.

La catàbasi di Soyinka riprende percorsi classici – soprattutto quello mitico di Orfeo e quello dantesco — facendoli propri. Il topos occidentale della discesa nell’oltretomba viene vissuto in chiave africana e postcoloniale, inscenando l’incontro fra culture occidentali e africane. Il mito classico trascolora nel mito yoruba – sua cultura d’origine – e il trauma al cuore del viaggio iniziatico diventa l’incontro coloniale, fonte di rielaborazione dell’immaginario e messa in scena teatrale. Questo avvincente itinerario culturale si articola nelle opere chiave del 1970-1975, da percorrere nella prospettiva di una segreta «presenza» dantesca.
Nel 1970 Soyinka allestisce il dramma Madmen and Specialists (trad.it. Pazzi e specialisti, 1979), da accostare al romanzo Season of Anomy del 1973 (trad. it. Stagione di anomia, 1981). Qui, le città dell’oltretomba inscenano le atrocità della guerra civile e i personaggi sono esseri stravolti e scomposti, tipi estremi dell’umanità e della disumanità. Al centro v’è Ofeyi (Orfeo) che cerca Iriyise (Euridice). Le città infere percorse da Ofeyi e compagni ricordano l’inferno dantesco a gradoni, e qua e là addirittura il termine inferno (sic) indica l’intera zona. Quando trova Iriyise paralizzata e incapace di seguirlo, Ofeyi cita letteralmente Dante, «abbandonate ogni speranza voi ch’entrate», doloroso ritornello sull’obitorio.

Ma questa catàbasi su tema orfico è anche, e soprattutto, altro. Infatti Ofeyi è insieme, e principalmente, il dio yoruba Ogùn in una rituale discesa all’oltretomba che, tuttavia, non è avventura solitaria, bensì impresa comunitaria, di gruppo. La combinazione di mito africano e occidentale celebra il ruolo del rito nella società umana come pure nella vicenda individuale.

Le poesie dal carcere, A Shuttle in the Crypt del 1972, comprendono «Purgatory», esplicito accenno a Dante, fatto di sottecchi — come spesso accade al poeta africano quando cita il mito occidentale — e una lirica dedicata a Ulisse, l’eroe che narra la catàbasi nell’Odissea.

Dello stesso 1972 è The Man Died (trad. it. L’uomo è morto, 1986), drammatico e aspro resoconto che Nadine Gordimer definì miglior esempio di narrazione di prigionia del ‘900, felice combinazione di lettere, narrativa e cronaca politica, momenti teatrali e lirici. Abitati da mille personaggi occasionali, il carcere e la Nigeria tutta sono un nuovo tipo di inferno, con carcerieri a mo’ di diavoli grotteschi e detenuti in perenne sofferenza.

Il ciclo ctonio di Wole Soyinka si completa nel 1975 con il potente dramma Death and the King’s Horseman (trad. it. La morte e il cavaliere del re, 1979), da cui Dante si è ormai allontanato e che mette a fuoco il trauma dell’incontro coloniale collegandolo al tema della morte nel contesto culturale e rituale yoruba.

*Università degli Studi di Milano

 

LA POESIA

Wole Soyinka

Purgatorio

Muro di flagellazione a sud
colpi di giustizia fendono l’aria festiva –
è il giorno del rendiconto

In teatro di burattini: primo, il chirurgo
presente per legge, oppure istruito per la prova
poi, una fila di secondini di cartone, palpebre
incollate – la squadra di controllo. E:
eroe del dramma. ombra che torreggia sul ‘cattivo’
prostrato al suolo, fende l’aria con un colpo
di prova, rimpiangendo la ruota e la corda e
lo strappaunghie – ahimè, tutto ciò che è buono
finisce – e si accontenta della frusta
prescritta dal regolamento. Oggetti di scena:
una panca per il corpo nudo, un asciugamani lurido,
un secchio di disinfettante giallastro per impartire
umidi timbri sulle secche misure della Legge.

Il circo arriva alla città del circo
un mostro di natura viene da mostri,
antico spettacolo, a divertire
archetipi di Purgatorio

Poiché qui la follìa è commista alla dannazione.
Epilettici, visionari e veggenti
drogati di ignote droghe, amici intimi
di anime senz’anima, e grigi
compagni delle ombre di svaniti riferimenti
che si trascinano per un cammino lungo una vita,
verso una tremenda sentenza finale.
/
E alcuni sono giunti al bordo della valle
d’ombra; e, a un lieve ridestarsi dei ricordi
da tempo affievoliti sino al momento del miracoloso perdono,
a una coscienza di rinascita e una promessa di domani
e domani e altri domani che incessanti ricomincino
la mente si ritrae in un riparo protetto
da mura, autocensurando la libertà di memoria
adattando le visioni alle opache muraglie, agli anelli
irti di punte ferree, alla pace di un rifugio senza passioni
e al conforto di una sanità castrata.

Svezzati dal momento della morte, attutito
il miracolo, la mente evapora in vaghezze, lo sguardo
vuoto come sono i pensieri che
si addentrano nel solitario abisso — E,
se tutto finisse qui? Se tutto finisse così, proprio
nella valle d’ombra della Notte?

Wole Soyinka, «Purgatory», A Shuttle in the Crypt, London: Rex Collins, 1972, pp. 38-39;
traduzione di Itala Vivan, L’anno di poesia 1988/89,
a cura di Roberto Mussapi,
Milano: Jaca Book 1989, pp.148-9.

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