Rispetto di sovranità e integrità territoriale. La Cina ribadisce uno dei suoi mantra sulla guerra in Ucraina, significativamente dopo lo svolgimento dei referendum nei territori occupati dalle forze russe. E lo fa in versione doppia, con l’ambasciatore all’Onu Zhang Jun e il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin. «La Cina ha sempre sostenuto che la sovranità e l’integrità territoriale di tutti i paesi debbano essere rispettate», così come «gli scopi e i principi della Carta Onu», ripetono Zhang e Wang tra New York e Pechino. Il riferimento alle Nazioni unite, così come il mancato appoggio ai referendum, è funzionale a non creare cortocircuiti sulla questione Taiwan (che non ha una poltrona in sede Onu). Non a caso, Pechino non ha mai riconosciuto nemmeno la secessione della Crimea. «Chiunque cerchi di paragonare o insinuare una rilevanza della questione ucraina su quella di Taiwan è mosso da calcoli politici», dice Wang. Allo stesso tempo, Zhang e Wang sottolineano che vanno «prese sul serio anche le legittime preoccupazioni sulla sicurezza di tutti i paesi», riferendosi alla prospettiva secondo cui la Russia, sentendosi minacciata dall’espansionismo Nato, sarebbe stata “costretta” a invadere. Anche l’invito a sostenere gli sforzi per una soluzione pacifica è rivolto soprattutto a Washington, che nella visione cinese non ha favorito la via negoziale ma ha anzi gettato «benzina sul fuoco» stimolando «il confronto tra blocchi».

PECHINO cerca insomma di mantenere il consueto, complicato, equilibrio tra la necessità di mostrare sostegno all’amico «senza limiti» senza compromettersi su una guerra nella quale non vuole essere coinvolta militarmente e di cui non vuole pagare effetti collaterali, come dimostra il rispetto delle sanzioni. Più la Russia alza il tiro e più la Cina deve mostrare di non essere allineata. Da qui l’incontro del ministro degli Esteri Wang Yi con l’omologo ucraino Dmytro Kuleba, o le prese di distanza sui media di stato sulla minaccia nucleare di Putin. Ieri è stato peraltro dato ampio spazio al discorso di Volodymyr Zelensky sui referendum.
Ma, a meno che la situazione precipiti, Pechino non scaricherà Mosca, la cui accresciuta dipendenza nei confronti del nuovo senior partner della relazione bilaterale fornisce numerosi vantaggi a Xi Jinping. A livello commerciale, la Cina può importare energia a prezzi scontati e spingere l’utilizzo internazionale dello yuan. A livello strategico, può proiettarsi da padrone di casa e garante della stabilità in Asia centrale e in futuro sull’Artico. A livello politico e retorico, può riproporre la visione di Nato e Usa come agenti disturbatori su Asia e Pacifico.

I movimenti americani nell’area proseguono peraltro senza sosta. In questi giorni Mike Pompeo è a Taiwan, Kamala Harris a Tokyo e Seul. Ieri l’ex segretario di Stato ha incontrato Tsai Ing-wen a una riunione delle camere di commercio estere a Kaohsiung e ha definito il Partito comunista cinese «l’unica minaccia! della regione, per poi criticare Joe Biden per aver escluso Taipei dall’Indo Pacific Economic Framework. È la sua seconda visita in sei mesi, stavolta con agenda soprattutto commerciale: alla base della passione taiwanese di Pompeo ci sarebbero anche interessi personali. Ma, nel pre Congresso, Pechino ha già mostrato di voler abbassare il livello delle tensioni sullo Stretto. La visita è stata minimizzata, col ministero degli Esteri che l’ha bollata come una «mossa inutile di un ex politico di ridotta credibilità».

Più attenzione sulle manovre di Harris, che da Tokyo ha detto che gli Usa intendono «approfondire i legami non ufficiali con Taiwan», criticando «il comportamento aggressivo di Pechino che tenta di minare lo status quo» e che «intimidisce i suoi vicini» con «comportamenti inquietanti». Wang ha replicato chiedendo «il rispetto degli impegni presi» su Taipei.

OGGI HARRIS è attesa nella zona demilitarizzata tra le due Coree, meno di due mesi dopo Pelosi. Pyongyang ha accolto la notizia lanciando altri due missili balistici a corto raggio. Kim Jong-un ha osservato con fastidio le esercitazioni congiunte con una portaerei Usa e l’acquisto da parte di Seul di nuovi sistemi antimissile Thaad (cosa che fa arrabbiare anche la Cina). Secondo fonti americane e sudcoreane, potrebbe essere svolto il primo test nucleare dopo 5 anni tra il 16 ottobre e il 7 novembre, cioè tra il XX Congresso del Partito comunista cinese e le elezioni di midterm Usa. Una variabile impazzita in una situazione già a dir poco intricata.