I risultati elettorali, al di qua e al di là dell’Atlantico, sono espressione di dinamiche complesse e multifattoriali. Valutarli dal punto di vista delle politiche economiche è interessante. L’avanzata della destra è anche espressione di sfiducia e rabbia sociale, frutto della crisi del liberismo e dell’austerity. Le crisi dei debiti privati e pubblici prima e quella del Covid dopo avevano incrinato l’egemonia del pensiero e della pratica neoliberale. Le contraddizioni sistemiche emerse e la crisi ambientale avevano fatto intravedere la necessità di una parziale discontinuità, la necessità di limiti al dominio di un mercato sempre più condizionato dalle scelte di pochi player.

Il successo del sovranismo è paradossale perché si afferma sulle macerie neoliberali, ma ne conferma buona parte dei presupposti economici. Esso è in grado di catalizzare consensi grazie alla retorica nazionalista e razzista, ma al contempo inizia a piacere a settori dell’impresa per il suo essere in continuità con le scelte economiche dirimenti. Come se tale opzione potesse risultare più efficace. Non mette in discussione i grandi assetti finanziari e l’adesione ai principi del libero mercato modulati in sedicesimi, cioè in scala macroregionale, anzi in alcuni casi li radicalizza. A conferma di questa continuità, nella campagna elettorale francese il candidato di estrema destra parla già di «rottura responsabile», quasi un ossimoro. Le tensioni geopolitiche, operanti da tempo, pur alimentando una deglobalizzazione selettiva, non portano alla rottura dello status quo. Fondi d’investimento, colossi high tech, mega-imprese della old economy e del credito continuano a governare il mondo. La destra all’opposizione abbaia, ma non morde al governo. Un recente esempio è il definitivo provvedimento dell’esecutivo Meloni che stabilisce il passaggio della rete telefonica italiana (infrastruttura strategica) al fondo Kkr.

La crisi geopolitica ha già effetti sul piano dell’economia reale. Protezionismo, dazi, volontà di reindustrializzare l’Occidente sono diventati un’opzione, nella strategia di contenimento della Cina, sin dalla presidenza Obama. Progetti che dalla propaganda provano a passare alla realizzazione anche nella più riluttante Europa. Indicativo in Italia è il caso della multinazionale biomedica Bellco, nel distretto emiliano, che ha minacciato centinaia di licenziamenti, prefigurando la delocalizzazione e confermando solo la ricerca in loco, per aver triplicato le perdite nonostante un incremento della produzione pari al 20%. Stiamo parlando di un comparto decisamente all’avanguardia ove però l’innovazione non sembra sufficiente a fronteggiare la concorrenza asiatica. La risposta per evitare i licenziamenti al momento sembrano i dazi. Insomma, anche la destra sovranista, dove governa, vuole fronteggiare gli scricchiolii crescenti con scelte protezioniste. In questo nuovo quadro poi rilancia le privatizzazioni e lo smantellamento del welfare, sostenuta da una certa impresa che continua a spolpare quel che resta dello Stato sociale. D’altronde, una parte crescente dell’impresa sposa il sovranismo proprio perché sulla difensiva, e perché non concepisce alcuna, seppur minima, riforma in senso redistributivo e collettivo dell’economia.

Basti pensare come aborre l’equità fiscale. In basso, dunque, restano il «mercato», le sue leggi, la retorica del merito e della competizione, che sempre più penetrano nei gangli sociali, scardinando connessioni e solidarietà. In alto la protezione dell’impresa, dei suoi profitti e dei suoi interessi. Con il risultato complessivo di consolidare diseguaglianze sociali, stemperare ulteriormente i già blandi provvedimenti in materia di ecologia e scaricare, almeno a parole, sugli ultimi le difficoltà dei penultimi e terzultimi. Una dinamica vincente sul terreno del consenso, che ammalia una parte della borghesia, ma estremamente fragile sul piano strategico.