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Soutine, struttura dietro la furia cieca

Soutine, struttura dietro la furia ciecaChaïm Soutine, "Le tzigane", 1926, Copenhagen, Statens Museum for Kunst

A Berna, Kunstmuseum, "Chaïm Soutine. Gegen den Strom", a cura di Anne-Christine Strobel La mostra insiste troppo sul carnale, il materico del pittore, marchio tragico del suo "shtetl" vicino Minsk, e perde di vista così il contesto di ricerca in cui egli operò: le avanguardie parigine

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 22 settembre 2024
Chaïm Soutine © Musée d’Art et d’Histoire du Judaïsm

La visita di una mostra su Soutine è sempre qualcosa che rimane impresso nella memoria. Non fa eccezione la mostra in corso al Kunstmuseum di Berna – terza tappa dopo Humlebæk (Danimarca) e Düsseldorf – che presenta una serie di capolavori, una sessantina, del grande pittore bielorusso di origini ebraiche. L’allestimento è stato accuratamente pensato ed è ben riuscito, principalmente con terne di dipinti per parete, ognuna delle quali incorpora un soggetto guida dell’opera soutiniana: le nature morte del primo periodo parigino, i paesaggi di Céret, Cagnes, Vence, alcune serie di ritratti, di pasticceri, di camerieri, di personale d’albergo, e naturalmente una bella sequenza di buoi squartati, tacchini penzolanti o fagiani stecchiti distesi sopra panni bianchi.
Si lasciano alla fine gli spazi della mostra – questa abbondante messe di capolavori con tanta ricchezza di pittura tra fondi blu scuro accesi da sciabolate di luce, tra grigi marroni rossi verdi scuri di angoli diroccati e sinistri di un macello – con la sensazione di uscire da un salone del Louvre.
Ma detto questo, viene subito da chiedersi: perché si è totalmente escluso l’ultimo periodo, salvo una sperduta Liseuse del 1940, vale a dire una dozzina di anni della sua opera? È il periodo in cui la pittura di Soutine assume un respiro più ampio attenuando l’irruenza precedente ma acquistando qualcosa che equivale a un sentimento di infinita malinconia. Un primo indizio lo fornisce il titolo stesso della rassegna: Chaïm Soutine Gegen den Strom, controcorrente. Era allora nelle intenzioni della curatrice, Anne-Christine Strobel, passare sotto silenzio l’ultimo periodo per proporre, o meglio ancora riproporre, la figura di un pittore ispirato dalla furia cieca, dalla passione divorante della sua pittura?
Sicuramente l’improvviso successo di Soutine, alimentato da una storia personale divenuta leggenda, stravolge il quadro convenzionale, i principi guida delle avanguardie parigine (l’avanguardia tout court). Soutine è un caso a sé, d’accordo; si può dire che nasce già pittore (meglio in francese, peintre-peintre) e che porta con sé, più di Chagall e di tutti gli artisti ebrei provenienti dall’Europa orientale, un’eredità unica, un «regno perduto» per dirla con Elie Wiesel, il segno delle origini sempre evidente nella sua pittura: qualcosa di carnale, materico, mischiato agli elementi primi della terra e della vita, il marchio della piccola Smilovitchi, del suo shtetl nelle vicinanze di Minsk. Ma questo modo di leggere la sua figura, essenzialmente come caso straordinario di ebreo emigrato baciato d’improvviso dalla fortuna, porta su una strada sdrucciolevole, seguendo la quale si finisce per perdere di vista l’altro lato, non meno importante e decisivo, della sua personalità. Insomma, ben poco si trova nel catalogo della mostra sulla storia della sua pittura; molto di più sugli aspetti sociali che da essa scaturiscono. Cosa un po’ riduttiva; del genere: la scelta di ritrarre portieri e uomini in uniforme rifletterebbe l’identificarsi dell’artista con gli umili, gli oppressi, i marginali.
Non credo che Soutine sia stato di sua volontà un pittore controcorrente, o come qui si sostiene «indifferente» alle correnti dell’arte moderna. È un punto delicato sul quale già Roberto Tassi, riprendendo l’amato Proust proprio in relazione all’opera di Soutine, metteva in guardia: «un libro è il prodotto di un io diverso da quello che manifestiamo nelle nostre abitudini, nella società, nei nostri vizi».
Esti Dunow, da tempo la conoscitrice più accreditata del pittore, nell’introduzione del catalogo ragionato avverte di non «romanzare» troppo attorno alla sua opera, perché si finisce, esagerando e sbagliando, per interpretarla solo come il frutto di un «espressionista impulsivo». Alle basi della crescita di Soutine, sbarcato a Parigi nel 1913, c’è l’interesse, la curiosità per quel che era appena successo o stava succedendo. Se solo si pensa a certi ritratti, ai piani ribaltati delle nature morte (Natura morta con violino, pane e pesce, 1922), suona strano che nel catalogo della mostra non spunti, una sola volta almeno, il nome di Cézanne. Ed è poi singolare che non si accenni minimamente a qualche altro moderno; che non si ravvisi nel primissimo dipinto della mostra, Mazzo di fiori su un balcone del 1916, una certa convergenza con la pittura di Bonnard.
Non credo che Soutine sia rimasto «indifferente» alla compressione di spazi, volumi e oggetti della pittura cubista, o alle pallottole di colore dei fauves, o all’umile sacralità del nuovo corso di Derain (Natura morta con aringhe del 1915). Certo, egli viene sempre più coinvolto, tanto da divenirne diretto «seguace», dai maestri che ammira al Louvre: da Fouquet fino a Courbet, Corot, soprattutto dal Seicento, ma ancora di più da Rembrandt in particolare, quella vita che emerge dall’oscurità, di cui sembra essere memore preparando lo sfondo di molti dei suoi ritratti, per il pollame appeso, meglio impiccato, o nella serie dei chierichetti (si recherà al Rijks di Amsterdam unicamente per vedere La sposa ebrea); Rembrandt da cui riprende, identico, il motivo della donna che si bagna in un ruscello (1930). Sì, i maestri del passato, ma ciò non deve escludere i suoi o quasi contemporanei, «una lunga riflessione sulla presenza, che è ben individuabile, di correnti artistiche all’interno della sua opera» (Dunow).
Nell’opera di Soutine si ritrova sempre un aspetto di riflessione continua sul proprio lavoro; un filone di ricerca che va affrontato e messo in luce lasciandosi alle spalle l’idea di un pittore impulsivo, preso dalla furia del dipingere. Soutine ragiona sempre, di continuo in termini di struttura compositiva. Il paesaggio di Cagnes, declinato in una lunga serie di variazioni, ce ne dà una chiara dimostrazione. Proprio a conferma di un forte senso di costruzione dell’opera si avverte da periodo a periodo una coerenza, un’evoluzione graduale, e non un procedere per salti.
In mostra due dipinti affiancati, Gallo appeso e Gallo morto, entrambi del 1925, spettacolari per la loro composizione dinamica oltreché per quell’esplosione di tensioni drammatiche, indicano come anche la gestualità furiosa, quella materia impastata, le sciabolate o i ghirigori pennellati quasi per moto automatico fanno un tutt’uno con un impianto che lascia d’altro canto intuire un pensiero lucido e chiaro. Poi, se si volesse continuare, non si potrebbe fare a meno di citare tutta la serie dei buoi squartati, in particolare il sorprendente, semi astratto Quarto di bue e testa di maiale del 1925. E anche persino quel paesaggio con la collina di Céret, massa grumosa e intricatissima di colori, che segue pezzo per pezzo nel suo divenire un filo logico. Il modo in cui Soutine struttura la composizione, impagina il motivo allargandolo fino ai margini estremi, distorcendolo e gettandocelo davanti con ineguagliabile forza espressiva, non sono il risultato di un’improvvisazione, di un gesto di impulsività; indicano invece una via, che persegue fino alla fine, «verso la chiarezza e l’espressività concentrata» (Dunow).
Se solo pensiamo all’opera di De Kooning, Bacon, o a quella di Baselitz, al volo comprendiamo quale influenza, quale potere di suggestione ha esercitato, esercita e ancora eserciterà la pittura di Soutine. Sarebbe stata una buona idea inserire in catalogo qualche close up per godersi l’incredibile lavorìo su ogni pezzettino di tela: segno chiaro di una sensibilità febbricitante, in continuo fermento.
Ci sarebbe poi un lungo elenco di fatti degni di un racconto per discutere sulla personalità di Soutine, dalla povertà all’improvvisa fortuna fino alla tragica morte da uomo braccato dai nazisti, ma forse niente meglio delle parole di Elie Wiesel, che qualcosa con lui per origini e destino ha condiviso, possono definirla: «I dipinti di Soutine io li considero dei sopravvissuti. (…) Soutine deve essere giunto alla conclusione che a Dio, anche a Dio, capita di maledire la propria creazione».

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