Sotto un segno d’autore
Cannes 72 Nel programma grande attenzione ai lungometraggi, da Yabushita a Mattotti
Cannes 72 Nel programma grande attenzione ai lungometraggi, da Yabushita a Mattotti
La presenza nei grandi festival del cinema d’animazione è randomica, spesso prossima allo zero. È già una buona notizia, quindi, trovare ben quattro titoli nel fitto programma della Croisette: l’edizione restaurata de La leggenda del serpente bianco di Taiji Yabushita nella sezione Cannes Classics, Les hirondelles de Kaboul di Zabou Breitman e Eléa Gobbé-Mévellec e La famosa invasione degli orsi in Sicilia di Lorenzo Mattotti in Un Certain Regard, il notevole J’ai perdu mon corps di Jérémy Clapin presentato e premiato alla Semaine de la Critique.
La seconda notizia, sempre positiva, è che sono quattro lungometraggi in animazione tradizionale, lontanissimi dall’estetica, dai contenuti e dagli schemi narrativi delle produzioni in computer grafica da box office, tipo DreamWorks Animation e Illumination Entertainment, tanto levigate quanto prevedibili e ripetitive.
Un’altra considerazione positiva. Il Festival di Cannes è un volano che rilancia in varie direzioni i titoli selezionati, una vetrina prestigiosa e soprattutto seguita, scavata a fondo da altri selezionatori di kermesse festivaliere, programmatori, buyers. Il film di Mattotti uscirà nelle sale italiane e francesi, in molte europee, probabilmente farà il giro del mondo; Les hirondelles de Kaboul avrà forse vita più difficile, ma le sue traiettorie distributive e le relative fortune dovrebbero ripercorrere quelle degli affini The Breadwinner (2017) e The Prophet (2014). Discorso un po’ diverso per l’indipendente J’ai perdu mon corps, per il quale si sono aperte le porte di Netflix, strada alternativa per un lungometraggio dal target adulto, distante sia dalla produzione commerciale sia dai titoli di qualità realizzati per i piccoli spettatori. Capitolo a parte per il seminale La leggenda del serpente bianco, destinato a far bella mostra di sé nel giro festivaliero e pronto per qualche lussuosa e celebrativa edizione home video.
Il film Yabushita, realizzato nel 1958 con un notevole sforzo e lodevole lungimiranza dalla allora nascente Toei Dōga, è stato il primo lungometraggio animato a colori del Sol Levante, il primo fondamentale tassello di un settore produttivo che nel giro di pochi anni sarebbe cresciuto a dismisura, diventando dominante, vero e proprio centro gravitazionale dell’immaginario fanciullesco e adolescenziale. Rivisto oggi nei suoi colori originali, riportato a uno splendore digitale, La leggenda del serpente bianco conferma la sua natura di classico quasi istantaneo, anti-Disney più nelle intenzioni che nella forma, rapidamente superato nel linguaggio animato dal boom delle serie per il piccolo schermo e dallo stile più sperimentale e innovativo delle successive pellicole. Un po’ come (quasi) tutta la filmografia di Yabushita, regista che ha incarnato perfettamente lo spirito della prima Toei, rinnovato poi da altri autori e animatori nel giro di pochi anni e pochi titoli.
Assenti per questo giro di valzer cannense i colossi a stelle e strisce (ci si sarebbe potuti aspettare la presenza di Toy Story 4 di Josh Cooley, invece uscirà direttamente nelle sale a fine giugno), sulla Croisette hanno numericamente dominato i padroni di casa. Una vittoria inevitabile, un po’ per il campo amico, soprattutto per lo standard elevato dell’animazione transalpina, spesso autoriale, ricca di contenuti grafici e narrativi. L’esempio più lampante è però un po’ ai margini dell’industria francese e delle traiettorie post-Kirikù e la strega Karabà (era il 1998, il successo travolgente del film di Michel Ocelot indicò una nuova via produttiva ed estetica agli animatori e ai produttori). Adulto, drammatico, ricco di sequenze action, J’ai perdu mon corps sembra guardare altrove, oltreoceano: l’animazione di Clapin è sorprendentemente fluida, cinematica, aggressiva in alcuni passaggi, in primis la scena tra i binari della metropolitana, con quei topi che ci riportano ai tratti decisi e spettacolari di Ralph Bakshi.
È in gran parte francese anche La famosa invasione degli orsi in Sicilia, coprodotto a più mani da Indigo Film, Rai Cinema, France 3 Cinéma e soprattutto Prima Linea Productions. La pur rilevante quota creativa nostrana (Mattotti e Dino Buzzati) non deve trarci in inganno. La realizzazione è transalpina, gli animatori sono per lo più francesi, l’industria è quella. Come le prospettive. La famosa invasione degli orsi in Sicilia si inserisce tra i vari lungometraggi prodotti da Prima Linea, come Loulou, l’incroyable secret di Éric Omond e Le avventure di Zarafa di Jean-Christophe Lie e Rémi Bezançon, riprendendone scelte cromatiche e di design. Si inserisce, più in generale, nella linea morbida e nei colori pastello che contraddistinguono gran parte del cinema d’animazione francese. Guardando al bicchiere mezzo pieno, possiamo aggiungere il nome di Lorenzo Mattotti a quelli di Enzo D’Alò e Alessandro Rak: tre talentuosi registi italiani d’animazione, un piccolo miracolo, dentro o fuori da confini.
In coda, almeno una considerazione sul volenteroso Les hirondelles de Kaboul, lungometraggio che nelle originali intenzioni produttive nasceva live action, ovvero con attori in carne e ossa. L’impraticabilità della location l’ha fatto virare verso l’animazione. Purtroppo si vede, la narrazione didascalica finisce per riflettersi anche sulle scelte estetiche, su un’idea un po’ troppo preconfezionata di animazione.
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