Un racconto gentile e acuminato che restituisce il tessuto antropologico e la memoria di un luogo preciso. Il nuovo spettacolo di Saverio La Ruina è un amoroso scavo autobiografico nei particolari di un contesto sociale mutato, emblematico della perdita di identità e gentrificazioni di rioni e quartieri delle nostre città. Con Via del Popolo (in scena al Teatro Basilica fino a domani) l’autore-attore calabrese torna alla Castrovillari della sua infanzia, negli anni 60, alla migrazione della famiglia dal silenzio della montagna del Pollino verso quel paesone chiassoso e pullulante di luci, meraviglioso e sconcertante. Sembra una parentesi introspettiva – un respiro profondo sullo scorrere del tempo – nella sua produzione drammaturgica, comunque rivolta sempre alla ricerca antropologica e sociale, fin dalle prime prove di Scena Verticale con Dario De Luca. Il tono sommesso e colloquiale della narrazione è venato di sottile ironia che spesso dilaga in un’irresistibile comicità

UN OROLOGIO deformato alla Dalì pende al centro della scena, segnata da lumi come fossero i viottoli del cimitero ma anche le strade del paese, che confluiscono tutte nella strada del cuore, dove tutto accadeva e la vita di ognuno scorreva tra bar e alimentari, negozi di artigiani e addirittura il cinema.
Tanta gente per la via, sulle porte e alle finestre, a creare una comunità partecipante nel vissuto di ciascun componente. Il tono sommesso e colloquiale della narrazione è venato di sottile ironia che spesso dilaga in un’irresistibile comicità, cifra sperimentata forse per la prima volta nella scrittura di La Ruina, in un continuo altalenare tra passato e presente (Saverio vive ancora in via del Popolo, dove c’era anche il bar di famiglia), tra personaggi morti e ancora vivi ma vecchi, tra lingua dialettale e italiana. Una presa d’atto del proprio percorso esistenziale, corroborato dalla vita di tanti e da una in particolare. Un addio al padre.