Cultura

«Sotto il segno di Platone», un filosofo imprendibile

«Sotto il segno di Platone», un filosofo imprendibilePlatone e Aristotele o la filosofia, di Luca della Robbia

Saggi Un libro a cura di Mauro Bonazzi e Raffaella Colombo, edito da Carocci. Al centro dell'opera, il primato dell’etica o dell’ontologia, della politica o della metafisica che segna la tonalità e il contenuto delle diverse e rizomatiche letture che del filosofo greco sono state date

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 13 aprile 2021

Il titolo Sotto il segno di Platone (a cura di Mauro Bonazzi, Raffaella Colombo, Carocci, pp. 235, euro 22) è una bella formula di Wilamowitz e va molto al di là del pur denso conflitto delle interpretazioni nella Germania del ’900. «Sotto il segno di Platone» è infatti, l’intera filosofia. Leggere, comprendere, interpretare il pensatore è uno dei supremi gesti filosofici ma è un atto che non si limita alla filosofia, coinvolgendo la storia e il suo significato. È per questo che «chi controlla Platone, controlla la filosofia e il potere, spesso non percepito, che essa detiene nella costruzione della nostra immagine del mondo».
Ma Platone rimane imprendibile. Questo è il dato primo e ultimo al quale ogni lettore del filosofo perviene. Ed è anche per questo che lo studio delle sue opere e della sua figura è interminabile. Perché Platone è molteplice, chiarissimo e labirintico, sirenico e mortale, politico e ontologico.

È NELLA DINAMICA tra le due ultime determinazioni che si coglie il filo rosso che attraversa questo libro. Il primato dell’etica o dell’ontologia, della politica o della metafisica segna la tonalità e il contenuto delle diverse e rizomatiche letture che di Platone sono state date. E questo non determina alcuno schematismo m, anzi produce faglie e direzioni ulteriormente ramificate. Si può privilegiare l’elemento etico-politico sotto il segno dell’umanesimo (Jaeger) o sotto quello della politica di potenza (Hildebrandt), o ancora rimarcandone l’illusione di un ideale estremo di giustizia al quale sacrificare ogni umanità (Kelsen) o invece farne il paradigma stesso dell’anima umana (Voegelin).

CHI INVECE PRIVILEGIA la struttura teoretica e metafisica del platonismo può farlo attraverso itinerari puramente gnoseologici (Cohen, Natorp, i neokantiani) o marcando l’apertura ermeneutica e la varietà di percorsi dei Dialoghi (Gadamer). Sino ad arrivare al filosofo che nel ’900 si è più a fondo confrontato con Platone, sin dall’epigrafe scelta per Essere e tempo, tratta dal Sofista. Per Heidegger, Platone non è un filosofo politico né un creatore di etiche ma è volto integralmente alle due questioni fondamentali della filosofia: l’essere e la verità. E per questo è necessario porsi prima di qualunque dualismo di soggetto e oggetto, di umanità e mondo, di bene e male.

LA SERIETÀ DELLA FILOSOFIA, al di là dell’etica, spiega secondo Trabattoni perché Heidegger abbia mantenuto il silenzio sulla vicenda politica della Germania nazionalsocialista. Un silenzio che deriva «dall’impossibilità di prendere le distanze dal nazismo nel modo che tutti si aspettavano da lui (ad es. Marcuse), ossia in modo semplicemente e direttamente morale, perché questo avrebbe comportato una incoerenza di fondo con la sua propria filosofia».

L’ONTOLOGIA è il fondamento della politica, non il contrario. Anche per questo ogni primato della politica in quanto tale non può che condurre alla catastrofe. Con molta acutezza Trabattoni coglie uno dei nuclei profondi del confronto di Heidegger con Platone e, in generale, uno dei nuclei della filosofia heideggeriana: «Heidegger ha compreso perfettamente che in Platone politica e scienza dell’essere sono in alternativa».

Le accuse rivolte a Platone sono state nel ’900 pari alla venerazione. Estreme sino alla ferocia le prime, estreme sino alla divinizzazione le seconde. C’è chi lo condanna e c’è chi lo difende. Ma, si chiedono giustamente Forcignanò e Vegetti, «davvero Platone ha bisogno di essere salvato?». E rispondono che no, non ne ha bisogno. Sia per ragioni metafisiche sia antropologiche: «La sua intransigente critica alla democrazia demagogica, lo smascheramento dell’oligarchia come potere anticomunitario e antisociale dei ricchi, l’invocazione di una élite che trova la propria legittimazione nel sapere e nella dedizione morale al bene comune, insomma quello che la Repubblica si sforza di insegnare, sembrano oggi più che mai riflessioni urgenti e inaggirabili».

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