Nei piani di trasformazione verso il green dell’Eni c’è il progetto di catturare la CO2 prodotta nella sua area industriale di Ravenna e pomparla, sotterrandola, nei suoi giacimenti esausti dell’Adriatico.

Si tratta cioè di mettere in atto la tecnologia detta CCS (Carbon Capture and Sequestration, ovvero cattura e sequestro del carbonio) che è stato proposto venga usata su grande scala per combattere il riscaldamento globale.

In effetti, l’idea è semplice, a parole: si preleva la CO2 emessa dalla ciminiera di una fabbrica o da una centrale elettrica e la si immette in una tubazione che la trasporta da qualche parte dove viene pompata sottoterra; e sottoterra dovrebbe rimanere per sempre. In questo modo, pur bruciando un combustibile fossile, la concentrazione della CO2 in atmosfera non aumenterebbe. Semplice e geniale, dicono i sostenitori. Pericoloso e concettualmente inaccettabile, dicono i detrattori.
Ma come stanno veramente le cose?

Proviamo ad esaminare il tutto prendendo in considerazione le operazioni che vanno fatte per mettere in pratica la CCS. Semplificando al massimo, le principali operazioni sono: separare la relativamente bassa concentrazione di CO2 dal grande flusso di azoto che costituisce la maggior parte dei fumi; e bisogna separarlo anche da altri componenti minori e dal particolato. Questa operazione, ovviamente, non è gratis: richiede energia e conseguenti emissioni, oltre grandi quantità di prodotti chimici – per produrre i quali occorrono energia (quindi emissioni) e risorse fisiche; trasportare e iniettare la CO2 sottoterra, cioè pompare; e per pompare gas occorre energia, e tanta, con relative emissioni.

Un’indagine condotta su 11 impianti sperimentali di CCS già realizzati ha evidenziato che, tenendo conto delle perdite e delle emissioni di CO2 conseguenti all’uso dell’energia occorrente per il processo, con la CCS l’immissione netta di anidride carbonica in atmosfera si riduce di una quota che va dal 63 all’82%, a seconda del tipo di impianto. Dunque, la CCS non azzera le emissioni dovute alla combustione, ma solo le riduce, e questa riduzione ha oggi un costo molto elevato. Il costo è in parte compensato, quando la CO2 si inietta in giacimenti di petrolio o metano esausti, da cui – con l’aumento di pressione – si possono spremere quantità residuali che non era stato conveniente estrarre. Il fatto è che l’operazione costa e non conviene farlo, a meno che non si sia un sussidio statale.

UN ALTRO ASPETTO DA PRENDERE in considerazione è: per quanto tempo potremo andare avanti bruciando combustibile fossile come al solito, anzi di più, sotterrando la CO2 prodotta? Cioè, quale è la quantità totale di CO2 che si può togliere di mezzo sotterrandola, tenendo conto della capienza dei siti nei quali questa operazione si può fare in condizioni di relativa sicurezza? Si è stimato che in pratica i siti che possono essere effettivamente utilizzati in tutto il mondo hanno una capacità totale che si saturerebbe entro 120 anni (stime più ottimiste dicono 300 anni) con l’attuale produzione di emissioni, molto meno se aumenteranno, come è certo che avverrebbe se dovessimo abbandonarci alle lusinghe della CCS. Così, all’inizio del prossimo secolo potremmo già ritrovarci nella situazione di partenza, anzi più critica, perché – non dimentichiamolo – le riserve di energia fossile non sono infinite e quelle ancora estraibili avrebbero un costo molto elevato. In più, continueremo nella nostra dissennata sistematica alterazione degli ecosistemi attraverso il cambiamento dell’uso del suolo, il depauperamento delle risorse idriche, della immissione di sostanze inquinanti nell’ambiente terrestre e marino, e avremo così profondamente alterato gli equilibri della biosfera, che il problema da fronteggiare non sarebbe il cambiamento climatico ma la sesta estinzione. Questo temono le associazioni ambientaliste e la comunità scientifica.

DA NON SOTTOVALUTARE POI SONO I RISCHI. Infatti niente assicura (non abbiamo esperienza in proposito) che il biossido di carbonio sequestrato a un certo punto, fra pochi o molti anni, lentamente o improvvisamente (per esempio per effetto di terremoti) non finisca per essere di nuovo rilasciato in atmosfera: un bel regalo per chi verrà dopo di noi, che sarà costretto a subire un brusco aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera, con conseguenze certamente non benigne. E poi, anche se si dovesse operare in modo da minimizzare il rischio, occorre ricordare che rischio basso non significa che l’evento non può aver luogo.

C’è qualcuno che porta avanti un’altra argomentazione contro la CCS, non proprio scientifica, ma che forse non va presa troppo sottogamba. Chi avrebbe il massimo vantaggio dalla diffusione della tecnologia CCS e per questo le promuove vigorosamente? Le compagnie Oil&Gas, che continuerebbero a estrarre e a vendere idrocarburi. Ma si tratta delle le stesse che per anni hanno distorto la verità – con milioni di dollari distribuiti a chi di dovere – negando che fossero le emissioni di CO2 causa del riscaldamento globale, o negando il riscaldamento globale tout court. Se quindi questi stessi soggetti sostengono ora che il CCS è sicuro e ci risolve tutti i problemi, che gli ambientalisti dicono stupidaggini…. ogni sospetto è lecito, anzi d’obbligo.

AL DI LÀ DEI COSTI, DEI RISCHI e della sfiducia, c’è un elemento incontrovertibile che milita decisamente a sfavore di questa soluzione, sia pure transitoria – come qualcuno sostiene debba essere per addolcire la pillola. L’elemento incontrovertibile è che dovremmo finalmente avere capito quello che la comunità scientifica ci dice da decenni: il solo modo di garantire prosperità ed equità all’umanità è quello di cercare di mimare il modello di funzionamento degli ecosistemi, cioè il modello circolare. Lo stesso dobbiamo fare noi, con l’economia circolare. Dobbiamo sempre chiudere i cicli. La CCS va contro questa logica, è in linea invece con quella che ci ha portato al riscaldamento globale, e nell’Antropocene: la logica dell’estrai-usa-getta. Nel caso specifico, estrai-usa-sotterra, come si fa con i rifiuti nelle discariche. La CCS è incompatibile con l’economia circolare.

CON TANTI FATTORI A SFAVORE, come mai la CCS, al di là delle pressioni interessate delle compagnie Oil&Gas ha comunque dei sostenitori in buona fede? L’argomento che si pone a favore delle CCS è che senza questa tecnologia non possiamo raggiungere l’obiettivo zero emissioni nel 2050. Il motivo per cui è indispensabile, dicono i sostenitori, deriva dal fatto che, se l’elettricità delle centrali termoelettriche può essere prodotta dai campi eolico e fotovoltaici, lo stesso non può farsi per la produzione di cemento e di acciaio, per esempio, che richiedono gas o altro combustibile fossile per il loro processo produttivo. Quindi per tutte queste fabbriche non c’è fonte rinnovabile che possa essere usata, e dunque dobbiamo continuare con le fossili, e sotterrare la CO2. Per fortuna le cose non stanno così, perché c’è invece un’alternativa, che è l’idrogeno verde, cioè l’idrogeno prodotto attraverso l’elettrolisi dell’acqua con energia elettrica proveniente da fonte rinnovabile. Infatti l’idrogeno può essere utilizzato per la produzione di acciaio primario e in altri processi produttivi della siderurgia, della raffinazione del petrolio, della chimica, cemento, vetro e cartiere. Ci sono numerose sperimentazioni in corso e su questa linea bisogna puntare.

VERO CHE OGGI L’IDROGENO non è competitivo con il gas, ma se all’attuale costo del gas aggiungiamo quello della CCS, la distanza si accorcia alquanto, e forse si annulla, se si considerano tutti i fattori, rischio incluso. E poi, quello dell’idrogeno è un ciclo chiuso: si parte dall’acqua, scindendola nei suoi componenti idrogeno e ossigeno, e all’acqua si torna quando si brucia l’idrogeno e si ricombina con l’ossigeno. Il tutto alimentato da energia rinnovabile. Non a caso è sull’idrogeno verde che il Green Deal Europeo ha puntato, e per svilupparlo ha messo a disposizione ingenti risorse.