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Sorelle, non trattenetevi. Fate sogni grandi

Habemus Corpus Sull’elezione di Maria Elisabetta Alberti Casellati alla presidenza del Senato. La questione non è tanto valutare se è meglio il «Basta che sia donna»

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 27 marzo 2018

Le opinioni si scontrano e non sempre in modo pacato. L’elezione di Maria Elisabetta Alberti Casellati alla presidenza del Senato, prima donna nella storia della Repubblica italiana a ricoprire la questa carica, ha fatto esultare alcune e dissentire altre. Da una parte c’è chi, benché in disaccordo con la storia politica di Casellati, si dice contenta che una donna sia finalmente arrivata così in alto e, se c’è da criticarla, la si criticherà. Dall’altro lato c’è chi sostiene che, visto il curriculm di Casellati, (una berlusconiana della prima ora, favorevole alla riapertura delle case chiuse, contraria alle coppie di fatto, particolarmente dura con Veronica Lario quando prese le distanze dal marito che amava intrattenersi con minorenni, pronta a giurare che Ruby era la nipote di Mubarak, firmataria di una proposta di legge che voleva abolire la legge 194 sull’aborto, contraria alla pillola del giorno dopo), il fatto che sia donna non consola per niente e quindi c’è poco da gioire.

Cambierei il punto di osservazione. La questione non è tanto valutare se è meglio il «Basta che sia donna» o «Non basta essere donna per esultare», perché si finisce in una discussione che è anche una trappola, un falso problema. Quello che salta agli occhi in questa vicenda è che sia Anna Maria Bernini, altra fedelissima berlusconiana poi affossata dal suo stesso partito, sia Cancellati sono state strumento di un mercanteggiamento maschile, entrate in un meccanismo di trattativa maschile, funzionali a una visione patriarcale del potere. Incontri, strategie, tattiche, accordi, indicazioni alla truppa, tutto è avvenuto in una contesa tra uomini (Di Maio, Salvini, Berlusconi. Meloni, sebbene sia nella coalizione di centro destra, nessuno se l’è filata).

I tre hanno messo in scena un immaginario guerresco che studia mosse e muove pedine, gestisce e ordina, divide il mondo in vincitori e perdenti. Entrare come donna in un gioco così significa diventarne strumento, con il grande rischio che si contribuisce a cambiare la facciata, ma non la sostanza. Essere l’ancella di un capo e compiacerlo, o gestire il potere secondo il suo schema, non è esattamente un modello di cambiamento o di differenza. Se poi ci spostiamo sul lato dei media, è da mesi che si vedono e sentono commenti, maratone, disquisizioni, sdottoreggiamenti e previsioni quasi solo di uomini, come se la politica, questa politica, fosse solo cosa loro.

Più di una volta mi sono domandata «Ma è possibile che non trovino nessuna donna a cui chiedere un parere, che non si accorgano che nei loro parterre mancano quasi del tutto la voce femminile non assoggettata?» È stato ed è un teatrino talmente noioso, trito e disperante che viene voglia di non leggere i giornali e spegnere la tivù.

In questi giorni i miei antidoti sono stati due. Andare a vedere il bellissimo Visages, Villages, film di Agnès Varda e JR dove lo sguardo sensibile dell’ottuagenaria regista francese fa emergere o coglie il lato vitale di ogni storia e luogo che incontra, anche i più emarginati e abbandonati. Poi andare ad ascoltare Antonella Cilento parlare del suo ultimo meraviglioso romanzo, Morfisa o l’acqua che dorme (Mondadori) di cui cito un passo. «Sorelle…Ora, poiché l’Acqua dorme da molto, molto tempo, Voi dovete risvegliarla: scorrendo Essa vi mostrerà lo passato, lo presente e lo futuro e, se sarete sue Devote, presto vi muterete ne le bestie e ne le piante, avrete ali, pinne e zampe, governerete lo Mare e lo Fuoco. l’Arte si apprende ne lo Sogno: non trattenetevi, non siate avare, non siate modeste, che è virtù che piace solo a li monaci caconi. Fate sogni grandi».

mariangela.mianiti@ilmanifesto.it

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