Sophie Calle, sguardi decomposti
L’ultimo intervento di Sophie Calle, dal titolo Finir en beauté, proposto per Les rencontres de la Photographie di Arles e visibile fino al 29 settembre: alle fotografie del ciclo Les aveugles, creato per la prima volta nel 1986, l’artista francese ha aggiunto altre immagini fotografiche decomposte dall’umidità sempre qui ai Rencontres e alcuni oggetti personali, arricchendo l’intera operazione di ulteriori significati
L’ultimo intervento di Sophie Calle, dal titolo Finir en beauté, proposto per Les rencontres de la Photographie di Arles e visibile fino al 29 settembre: alle fotografie del ciclo Les aveugles, creato per la prima volta nel 1986, l’artista francese ha aggiunto altre immagini fotografiche decomposte dall’umidità sempre qui ai Rencontres e alcuni oggetti personali, arricchendo l’intera operazione di ulteriori significati
L’opera dell’artista molte volte è qualcosa che si trasforma, si rinnova e si implementa continuamente, a seconda del contesto in cui viene riproposta. La forma dell’installazione – non è certo una novità – si presta più di altre a queste «rinascite», soprattutto quando gli oggetti si fondono con lo spazio fino a diventare una cosa sola. È scontato che questo accada nei site specific, opere pensate appositamente per un dato luogo, lo è meno quando si tratta di ri-allestire un lavoro realizzato quasi quarant’anni prima, come nel caso dell’ultimo intervento di Sophie Calle, dal titolo Finir en beauté, proposto per Les rencontres de la Photographie di Arles e visibile fino al 29 settembre, presso il suggestivo spazio sotterraneo dei criptoportici, ubicati sotto l’attuale municipio.
Alle fotografie del ciclo Les aveugles, creato per la prima volta nel 1986, l’artista francese ha aggiunto altre immagini fotografiche decomposte dall’umidità sempre qui ai Rencontres e alcuni oggetti personali, arricchendo l’intera operazione di ulteriori significati.
È davvero raro trovarsi davanti a un’installazione di tale potenza immersiva, la cui visita vale il viaggio nella cittadina famosa per il suo festival. Il biglietto di ingresso (5 euro) è lo stesso che si paga normalmente per accedere al sito archeologico patrimonio dell’Unesco. Situati sotto il foro della città che si estendeva per 3400 metri quadrati e che fu edificato sotto l’Impero di Augusto tra il 25 e il 10 a.C., i criptoportici sono composti da tre doppie gallerie, ciascuna di 8,5 metri di larghezza tali da formare una U. Vi entra solo la luce fioca esterna che proviene da alcuni lucernari.
Davanti al racconto per immagini che Calle compone con grande cura, un racconto poetico, filosofico, iconografico e inevitabilmente analogico, accompagnato dalla sua voice over diffusa per l’intero spazio, non si può fare a meno di riflettere su uno dei temi portanti dell’arte: rendere visibile ciò che non lo è. E, in questo caso, l’invisibilità è letterale, totale, palpabile. Ai soggetti protagonisti, ciechi dalla nascita, l’artista ha rivolto un’unica, semplice domanda: qual è l’immagine della bellezza? Mentre su ogni singolo pilastro del portico sono appesi i fotoritratti in bianco e nero dell’intervistato – volti che possiedono un che di fantasmatico e sembrano avvolti in una dimensione a-temporale – poggiate a terra sulla parete opposta possiamo leggere la risposta che ciascuno ha dato del bello, con le loro parole tradotte mediante altre immagini incorniciate. In più di un caso compare il mare, elemento evocativo e immaginabile per chi è avvolto dalle tenebre. Ma, tra le altre risposte, troviamo il verde, il bianco, Alain Delon, la propria madre, i capelli lunghi, le decorazioni natalizie, la Tour Eiffel, un paesaggio, il portale romanico della chiesa di Vézelay. A conclusione di questa prima parte del percorso dedicato agli aveugles, c’è solo un ragazzo che ribatte in modo negativo all’artista: «Non ho bisogno della bellezza, di immagini nella testa. Non ho mai apprezzato la bellezza, l’ho sempre fuggita».
Spot luminosi ritagliano i quadretti di varie dimensioni squarciando la semioscurità del luogo e creando geometrie di luce che rendono la visione un’esperienza ancora più intensa, sospesa, quasi metafisica. Il destino di queste immagini è – ancora una volta – la loro graduale e inesorabile dissoluzione. Ma se nella precedente esposizione arlesiana la decomposizione è stata involontaria, stavolta l’artista ha deciso volontariamente di lasciar deperire il materiale fotochimico, per «concludere in bellezza», come recita l’azzeccato titolo dell’installazione, alludendo anche al concetto su cui si esercitano i suoi non vedenti.
«Questo luogo» – scrive Calle nella nota introduttiva alla mostra – «che avrebbe dovuto proteggerle, paradossalmente aveva agito come strumento di distruzione. Che questo sia successo in una città che gioca un ruolo importante nella conservazione delle immagini è pittoresco. Quindi ho immaginato che avrei potuto seppellire qui i miei ciechi, affinché potessero finire di decomporsi e le loro parole, che parlano solo della bellezza, sprofondare nelle fondamenta della città. Mi sono resa conto che il marciume aveva selezionato le sue vittime. Accanto a questi sguardi che non vedono, esso si è preso cura solo di progetti che evocano simbolicamente la morte, come se avessero perso la loro immunità: mazzi di fiori secchi, foto di tombe, la foto del mio materasso su cui un uomo si è immolato, quadri che declinano le ultime parole di mia madre. E poiché stavo per offrire una seconda morte alle mie opere angosciose, ho accolto anche cose della mia vita che non sono più utili ma che non posso né donare né buttare via».
Inutile dire che – insieme al rapporto tra visibile/non-visibile – in questo straordinario lavoro entra in gioco un’altra questione centrale, la relazione tra la Fotografia e Morte, dibattuta a fondo nell’insuperato saggio La camera chiara di Barthes, che ruota intorno all’è stato come concetto specifico del fotografico. Ma, a un tratto, rileggendo alcune considerazioni del semiologo francese, ci si accorge che c’è un passo illuminante rispetto all’installazione di Calle: «Io posso solo trasformare la Foto in una cosa da buttar via: o il cassetto o il cestino. Non solo essa condivide il destino della carta (è deperibile), ma, anche se è fissata su supporti più solidi, è pur sempre mortale: come un organismo vivente, essa nasce da granuli d’argento che germinano, fiorisce un attimo, poi subito invecchia».
Forse sarebbe bastata la ri-lettura espositiva degli aveugles per i criptoportici, poiché questo lavoro è di una forza e compattezza che non contempla integrazioni. Ma l’artista ha scelto – probabilmente anche per l’ampio spazio a disposizione da riempire – di includere sia tele fotografiche ormai rese astratte dai funghi e disposte direttamente sul pavimento, sia oggetti personali – come un vestito appeso, due valige, un materasso con lenzuola e cuscini – che rappresentano momenti della sua esistenza (in alcuni casi documentati da altre fotografie e da didascalie esplicative), per consegnarle definitivamente all’oscurità e alla morte.
In quel «non si possono né donare né buttare» c’è l’ennesimo senso di sospensione che pervade l’arte in tutte le sue manifestazioni e l’opera della Calle nel suo insieme. Il non potersi privare dello sguardo (anzi, al contrario, cercare di restituirlo a coloro che non lo hanno mai avuto) e al tempo stesso essere consapevole della sua finitezza, del fatto che prima o poi lasceremo questo mondo e, insieme ad esso, la possibilità di osservarlo e di fotografarlo.
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