«Avevo appena nove anni. Innocentemente, quasi per gioco, chiesi a mio nonno materno Ohannes di parlare della sua infanzia davanti al mio registratore nuovo. Riluttante, quasi mormorando tra sé e sé, accennò solo all’incendio della chiesa della sua città natale, Urfa, oggi in Turchia. Da bambino aveva «camminato a piedi nudi sul grasso che continuava a uscire dalla cattedrale».

All’epoca non potevo comprendere il significato del suo racconto. Non sapevo ancora che lui e la sua famiglia erano stati vittime della «follia del bufalo». Così viene chiamata, in turco, la folle mattanza degli armeni compiuta tra il 1894 e il 1896 per ordine del sultano Abdul Hamid II. Nel gennaio del 1895 la grande cattedrale di Urfa venne data alle fiamme e i circa 3.000 fedeli armeni che vi si erano rifugiati nel tentativo di sfuggire al massacro finirono bruciati vivi. Entrambi armeni della diaspora ed originari della città di Urfa, i miei genitori si conobbero in Libia».

Così inizia a raccontare la storia della sua famiglia Sonya Orfalian, scrittrice e figlia della diaspora. «Nel 1915 altri bufali impazziti si scateneranno e priveranno un intero popolo della propria terra. Gli armeni sono stati vittime di un genocidio a tutt’oggi negato dagli eredi di chi lo ha commesso, programmato, messo in atto (il governo dei Giovani Turchi, nel 1915) e infine portato a compimento (Mustafà Kemal, nel 1920). Da allora, sulle terre che furono armene non resterà più alcun armeno, né donna né uomo» – ricorda.

Il Giorno della Memoria del genocidio armeno, il 24 aprile, Sellerio ha pubblicato il suo Alfabeto dei piccoli armeni, già edito in Francia da Gallimard. 36 brevi, intensissimi racconti che danno voce ai bambini, i suoi cari, della generazione dei nonni, miracolosamente sopravvissuti al «Grande Male»: lo sterminio di un milione e mezzo di armeni, la metà della popolazione dell’Anatolia. Nella postfazione, il geopolitologo Gérard Chaliand scrive che a distanza di cento anni il genocidio è stato riconosciuto nel 2016 dalla Germania, ex alleata dell’Impero ottomano nella prima guerra mondiale, e nel 2019 all’unanimità dal Senato americano, e che «nel frattempo, era stato pubblicato il lavoro dello storico turco Taner Akcam, che stabiliva in modo inoppugnabile l’autenticità dei cosiddetti Documenti andoniani rivelando l’intenzione dei dirigenti dei Giovani turchi di metter fine alla questione armena con il massacro di un popolo. Raphael Lemkin, che aveva coniato il termine «genocidio» per designare lo sterminio degli ebrei d’Europa durante la seconda guerra mondiale, si era ispirato esplicitamente a quanto avvenuto con gli armeni un quarto di secolo prima». Eppure, la Turchia insiste nella sua politica negazionista. Parliamo con Sonya Orfalian di quello che definisce il «diario della mia memoria».

Nel testo introduttivo del suo «Alfabeto dei piccoli armeni» scrive del segreto di famiglia scoperto nella sua infanzia, «qualcosa che non poteva essere detto, qualcosa che non si poteva raccontare». Qual è stato il percorso dalla scoperta allo svelamento al racconto di quel segreto?
Queste voci, questi sussurri sono sempre stati presenti, con un impatto diverso a seconda dell’età. Anche se vivevamo a Tripoli, ho sempre saputo che eravamo armeni e in casa parlavamo solo la nostra lingua. Dal silenzio ogni tanto trapelava qualche parola: i turchi, camminavano, il deserto, ma nostra mamma ci rassicurava e noi bambini sapevamo che certe cose non si potevano chiedere. Anche la mia domanda su dove fossero «gli altri» – le famiglie dei vicini erano molto più numerose della nostra – non otteneva risposta. Dopo un anno della rivoluzione del 1969 Gheddafi ha chiuso le scuole italiane e noi, che eravamo per un breve viaggio in Italia, ci siamo rimasti come rifugiati per proseguire gli studi. Travolti da talmente tanti problemi logistici e burocratici, ho sospeso le ricerche su quel segreto. Ho scoperto solo grazie a un libro letto a 30 anni che il mio bisnonno materno era stato un eroe della resistenza, imprigionato e poi esiliato nei deserti della Libia, allora parte dell’Impero ottomano. È tutta la vita che ricompongo un mosaico di cui alcune tessere sono ancora mancanti. Il pozzo della memoria si è riempito con l’acqua raccolta da tanti piccoli rivoli, scoprendo cose tremende sfuggite alla rimozione. Ho iniziato a scrivere le nostre fiabe, per dar voce a chi non le poteva più raccontare. Poi ho scritto della cultura culinaria perché le donne sopravvissute cercavano di ricostruire il focolare domestico e di trasmettere la più antica cultura armena con le ricette tradizionali, i digiuni rituali, i canti… Infine è giunta l’ora di «buttarmi nel sangue» e ho raccontato senza fronzoli, a ciglio asciutto, del momento dello strappo, in cui avveniva lo scempio dei miei cari nel genocidio del 1915-1923. Io ho fatto la stessa esperienza di quei bambini quando sono stata sradicata dal mio Paese senza potervi più tornare, dunque mi sono messa accanto a loro e ho scritto in prima persona singolare al presente ciò che mi hanno detto. Sono tutte tappe di un’unica elaborazione che ora mi permette di intitolare con parole prima impronunciabili, l’insulto dei turchi Ermenì ghiavùr (armeni infedeli), il mio ultimo testo teatrale.

Perché i 36 racconti sono associati alle lettere dell’alfabeto armeno?
Per noi è molto importante l’alfabeto, che è stato creato solo nel V secolo e che ha permesso di scrivere i testi fondanti della nostra cultura, le storie dei santi, dei re, degli eroi, le epopee. Il mito racconta che Dio mostra le lettere nel cuore di Mesrop Mashtots, un monaco poi fatto santo, secondo un biografo. Secondo un altro, oltre che fargliele vedere nel cuore, le scrive su una pietra. Ho pensato alle 36 lettere dell’alfabeto perché ciascuna sia l’emissione di una voce.

Il film «Il padre» (The Cut) di Fatih Akin inizia con «C’era e non c’era una volta», come le vostre fiabe. Nel romanzo «La masseria delle Allodole» di Antonia Arslan il suo popolo è definito «mite e fantasticante». Anche nel suo «Alfabeto dei piccoli armeni» ritrovo la struttura della fiaba: è il viaggio di bambini-eroi innocenti strappati da un mondo felice, precipitati in un inferno governato da mostri e orchi, e miracolosamente sopravvissuti. È così?
Sì, e la struttura della fiaba l’hanno data i bambini stessi col loro linguaggio infantile. Le nostre favole iniziano con «C’era e non c’era una volta» per proiettare i bambini in un altro tempo e un altro spazio dove tutto può succedere, gli animali possono parlare e gli uomini possono intenderli, le distanze e il tempo possono cambiare… Nelle nostre fiabe si dice «camminarono molto, camminarono poco, solo loro lo sanno», perché lo spazio e il tempo sono indefiniti. Oltre al viaggio in un altro mondo, della fiaba ci sono gli amuleti, come quello che la nonna consegna alla nipotina, e gli aiutanti magici. Durante le deportazioni era vietato aiutare gli armeni, ma a volte qualche arabo dei villaggi attraversati, mosso a compassione dava loro un tozzo di pane, un pugno di uvetta, un sorso d’acqua. Una bambina racconta di una mucca che le voleva bene e le dava il latte, come quella della favola della mucca rossa. Senz’altro ci sono i mostri e gli orchi. Infine c’è il miracolo della sopravvivenza.

È stata per gran parte della sua vita rifugiata e apolide o, come dicono meglio i francesi, «apatride», senza patria. Cosa pensa dei migranti che cercano di raggiungere l’Europa?
Sono stata chiamata apolide, rifugiata, profuga, straniera, residente e nei mille altri modi che la burocrazia ha ritenuto utili per definire quelli come me. Le colonne dei migranti che cercano di entrare in Europa mi fanno pensare alle marce della morte degli armeni. La burocrazia internazionale chiama rifugiato una persona che contro la sua volontà è costretta a fuggire per salvare la pelle, e solo quella. Arriva in un altro paese, braccato come un animale in cerca di aiuto, e si ferma solo dove la sua vita non è più in pericolo. Spera di essere accolto come una persona con la sua dignità, qualunque sia il colore della sua pelle. Ma una persona che accolgo in casa, io la chiamo ospite. E, anche se è un’utopia, penso semplicemente che ci dovrebbero essere uguali diritti e uguali doveri per tutti.

«Sarebbe stato possibile costringere la Turchia, legata da tanti interessi a tutte le nazioni europee, a non straziare in tal modo chi non domandava altro, in fondo, che di essere lasciato in pace. Niente mai fu fatto, o almeno niente che desse risultati concreti».
Antonio Gramsci, Il grido del popolo, 11 marzo 1916