La storia di Fiorella Belpoggi, direttrice scientifica dell’Istituto Ramazzini di Bologna, è quella di una donna impegnata da sempre per una ricerca libera dalle pressioni dell’industria e finanziata dai cittadini.

In quarant’anni di lavoro ha svelato, con l’aiuto dei suoi collaboratori, le connessioni tra ambiente e salute, tra un’idea malsana di progresso e tante delle malattie che ci affliggono.

Un lavoro reso possibile grazie all’Istituto Ramazzini, una Cooperativa sociale con 35 mila soci, fondata nel 1987 dal professor Cesare Maltoni, oncologo di fama mondiale, e dall’allora senatore della Repubblica Luigi Orlandi, per contribuire alla lotta contro il cancro e le malattie ambientali.

La sua storia e le sue battaglie a difesa della salute e dell’ambiente sono diventate di recente anche un libro, «Fiorella Belpoggi, storia di una scienziata libera» (Terra Nuova Edizioni, euro 16,50) curato della giornalista Licia Granello.

Belpoggi, uno dei cavalli di battaglia del suo impegno di ricercatrice è lo studio dei danni che i pesticidi arrecano all’uomo e all’ambiente. A che conclusione è arrivata?

Parlare di conclusioni è azzardato. Tutti i tossicologi sanno che la maggior parte dei pesticidi è dannosa per la salute umana. Gli effetti sono diversi e più o meno severi, ma se un composto chimico è capace di eliminare batteri, funghi, insetti o piante infestanti, è certo che da un punto di vista biologico può danneggiare anche le cellule umane.

Il nostro lavoro sui pesticidi, che è in linea con la strategia dell’Unione europea sulle sostanze chimiche, messa a punto l’ottobre scorso a Bruxelles, ha portato a risultati importanti e perfino inquietanti. Per esempio sul Mancozeb, un antifungino molto diffuso per combattere l’oidio nei frutteti, ora agrofarmaco finalmente bandito anche grazie al nostro studio, e il glifosato, l’erbicida più usato al mondo, nonché sugli effetti moltiplicativi delle miscele di pesticidi, anche se somministrati a dosi considerate nei limiti di sicurezza per i consumatori.

Il primo passo nella lotta per ottenere un’agricoltura sostenibile è affrontare in modo risolutivo gli effetti cumulativi e combinati delle sostanze chimiche. L’obiettivo finale, ambizioso al limite dell’utopia, è inquinamento zero, ovvero la realizzazione di uno dei grandi traguardi del Green Deal europeo. Tutto ciò è sicuramente molto ambizioso e richiederà tanto tempo, ma bisogna cominciare.

Perché ciò accada cosa occorre fare?

All’Istituto Ramazzini abbiamo scelto di mettere a punto un modello sperimentale conforme alle linee guida internazionali e allo stesso tempo focalizzato su diversi parametri investigativi, non solo la cancerogenesi, come la neurotossicologia, l’interferenza con gli ormoni endogeni (interferenti endocrini), sia sessuali che metabolici, l’immunodepressione.

I risultati dei nostri studi possono costituire la base per l’attività regolatoria della Commissione europea, che in un recente resoconto ha dichiarato che «gli studi sul biomonitoraggio umano in Europa indicano un numero crescente di diverse sostanze chimiche pericolose nel sangue e nei tessuti del corpo umano, inclusi alcuni pesticidi e biocidi. In più, l’esposizione prenatale combinata a diverse sostanze chimiche ha portato a una riduzione della crescita fetale e a minori tassi di natalità». E ancora: «Diventa necessario accelerare il lavoro sulle metodologie per garantire la piena attuazione delle disposizioni esistenti». Un attestato di gravità che dovrebbe togliere il respiro e che invece viene letto ancora con troppa superficialità dai politici e nelle istituzioni.

Un altro suo studio importante è quello sul 5G. Che idea si è fatta?

Penso che non si possa tornare indietro. Ormai il mondo del lavoro e le nostre attività sociali sono tutti basati sulle nuove tecnologie telematiche. Quindi è giusto che si proceda con l’innovazione tecnologica, ma solo con la sicurezza che non sussistano danni alla salute per l’esposizione continua a onde a radiofrequenza.

Questa sicurezza non c’è, anzi. Recenti studi su animali da laboratorio, compreso il nostro, hanno dimostrato che fino a 50V/m si può osservare un aumento dell’incidenza di tumori del cervello e dei nervi periferici. Questi sono gli stessi tumori riportati negli studi sulla popolazione di forti utilizzatori con un uso prolungato di telefono cellulare. Quindi si tratta di un sospetto fondato.

Nel mondo della chimica di sintesi, quella che è fra di noi con milioni di prodotti di consumo, esistono innumerevoli esempi di sostanze cancerogene che sono rimaste sul mercato anche se pericolose, purché in ogni prodotto la sua specifica quantità sia al di sotto dei limiti consentiti.

Allora mi chiedo: perché non fare la stessa cosa con i campi elettromagnetici, perché non limitare l’intensità del campo generato dalle antenne o dal telefonino al di sotto di quei 50V/m che si sono dimostrati pericolosi? L’Europa propone invece 61 V/m per andare incontro alle richieste delle compagnie che spenderebbero molto meno installando poche antenne potenti piuttosto che milioni di piccole antenne a bassa potenza.

In Italia abbiamo 6 V/m come valore di attenzione. Teniamoci caro questo limite e basiamo le nostre battaglie non sul bando dell’innovazione, ma sul mantenimento di livelli di esposizione compatibili con la nostra salute.

Quest’anno è previsto dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) il riesame sulla cancerogenità dell’aspartame. Voi ve ne occupate dal 1997. Come finirà?

In 50 anni e più di attività non ci siamo mai sbagliati e, purtroppo, la conferma dei nostri risultati è sempre avvenuta contando gli ammalati o i morti nella popolazione esposta.

Sono certa che anche per l’aspartame, presente in circa seimila prodotti di consumo, la valutazione dei nuovi risultati porterà a una conferma della sua pericolosità.