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«Sonny Boy», memoir di un attore fra le storie più intime della vita

«Sonny Boy», memoir di un attore fra le storie più intime della vitaAl Pacino – GettyImages

Libri L’autobiografia della star, per La Nave di Teseo. L’infanzia nel Bronx, il successo, l’amore per il cinema

Pubblicato 6 giorni faEdizione del 22 ottobre 2024

Esordisce al cinema a ventinove anni (non precoce per l’epoca) nel 1969 con Me, Natalie, poi nel 1971 è protagonista di quello che a tutti gli effetti sarà il suo vero grande debutto, o Panico a Needle Park, di Jerry Schatzberg. Seguiranno in soli quattro anni: Il padrino, Serpico, Il padrino parte II e Quel pomeriggio di un giorno da cani del 1975, e da allora in poi sarà semplicemente Al Pacino. In soli quattro anni definisce la propria misura altissima e la propria identità, unica e inscalfibile di attore e stella assoluta del cinema americano e quindi mondiale, interprete di quella New Hollywood che lo vedrà protagonista insieme a De Niro e a Dustin Hoffman.

CON TRE ANNI in più di De Niro e tre anni in meno di Hoffman, Pacino si pone in perfetto equilibrio all’interno di un trio che ha molti punti in comune, a partire dai registi che li guideranno nelle loro carriere, ma nessuna sovrapposizione. Era dai tempi d’oro di Hollywood, quelli del primo Marlon Brando che non arrivava sulle scene una tale forza espressiva maschile originale e capace d’interpretare la società a cui quel corpo dinoccolato ed elastico apparteneva con ironia e consapevolezza.
Sonny Boy. Un’autobiografia (La nave di Teseo, traduzione di Alberto Pezzotta, 328 pagine – 22,00 euro), l’autobiografia di Al Pacino arriva in Italia in contemporanea all’edizione americana. Giura Elisabetta Sgarbi che sia stata scritta di proprio pugno dalla star americana senza alcun aiuto ghost. E se ci sembra plausibile che sia così, lo è anche perché il libro ha in più punti una densità letteraria a tratti severa ma a tratti anche ingenua. Una delicatezza naturale per chi è abituato a mettersi in scena e in posa, e sa bene quando e come svelarsi davanti agli occhi altrui. Per certi versi Sonny Boy è un libro che si contrappone al testo di J.D. Vance, Elegia americana. Se da un lato abbiamo una star mondiale che ha una chiara idea del proprio percorso e di come quel percorso sia stato (ed è) fondamentale nel proprio lavoro così come nella propria coscienza di sé, dall’altro abbiamo un cantore della povertà in quanto tale che si atteggia ad amico delle masse popolari, ma che in realtà riflette la mentalità perfettamente strutturata di un certo tipo di classe dirigente espressa da Yale e nulla più.

Sonny Boy ha la forza di una commedia on the road: dalle origini italiane, nato ad Harlem e poi l’infanzia a South Bronx, le prime scorribande per le strade e quindi il teatro che diviene una vera e propria ancora di salvezza, in particolare grazie a Cechov e all’Actors Studio di Leo Strasberg. È infatti con una messa in scena de Il gabbiano che Al Pacino viene notato e soprattutto si convince che quella è la sua strada e quella sarà la sua storia. Sonny Boy non è però il racconto banale e stucchevole di un successo ma la narrazione vivida di una vita ricca di contraddizioni e incomprensioni, di conflitti che divengono comprensione di sé e dei propri limiti. E al tempo stesso della propria capacità d’amare e di essere amato in un’epoca, gli anni Settanta, di cambiamenti radicali e di rivoluzioni sociali e del costume, che però porta ancora con sé, specie in un giovane uomo del Bronx figlio di Salvatore Pacino – il padre che lo abbandonerà da piccolo – i retaggi di un mondo ben distante da quello bohémienne che Al abbraccerà in futuro.

Prima che l’attore e la sua straordinaria pratica prende forma così una mutazione del maschile inedita – e solo in parte messa in atto precedentemente da Marlon Brando – con la frammentazione dell’eroe che da invincibile diviene fragile e perdente. Al Pacino va oltre portando con sé una forma inedita di tenerezza e lo fa con personaggi ambigui ed equivoci come Bobby di Panico a Needle Park e Tony Montana di Scarface. E non da meno è il Johnny, cuoco da tavola calda ed ex galeotto del sottovalutato Paura d’amare di Gary Marshall.

IL MOVIMENTO che mette in atto Sonny Boy (che è come la madre chiamava Al) è quello di un movimento ondivago che non sta tra il successo e il fallimento, ma tra il poter far parte dei giochi o l’esserne escluso. Un movimento che Al Pacino spiega bene all’indomani del successo di Scarface quando la sua carriera tocca l’apice.
C’è qualcosa che lo porta per tutta la carriera a sfidare Hollywood e il mainstream che anche vincendo più di una volta nel rivelarne il cinismo e l’ottusità finisce per accreditare e restituire valore a un mondo che lui stesso detesta. È una, forse la più evidente, delle contraddizioni di un uomo complesso e che molto ha vissuto, ma sopratutto che molto ha saputo vivere. Un uomo che sa maneggiare con cura i propri ricordi regalandoli a un pubblico che lui conosce anche più di se stesso, perché sa quando rideremo e sa quando ci commuoveremo leggendo la sua irripetibile storia.

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