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Saint Exupéry Storia del «Piccolo principe», bambino biondo disegnato sui tovaglioli e poi divenuto capolavoro della letteratura

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 14 dicembre 2013

I viaggi avventurosi di Jules Verne e la Sirenetta malinconica di Andersen, il teatrino improvvisato con i fratelli e il calore della voce di Marie, sua madre, ad accompagnarlo nel sonno. Su tutto, la stessa riluttanza di Peter Pan, quello scalcitrare furioso di fronte al mondo adulto. «Non sono sicuro di essere mai uscito dall’infanzia» si sorprenderà a confessare lo scrittore francese. Il Piccolo Principe di Antoine Saint-Exupéry nacque molti anni dopo, in esilio, quando lo scrittore-aviatore era in America e stava per terminare la sua vita sulla terra, perdendosi misteriosamente nei cieli estivi, a bordo del suo aereo. Si inabissò a largo di Marsiglia il 31 luglio del 1944, forse abbattuto dai tedeschi (i rottami del suo aereo sono stati ritrovati dopo decenni di ricerche, ma sul velivolo non c’era neanche un buco a testimoniare la battaglia), lasciando dietro di sé la pubblicazione, presso l’editore Reynal & Hitchcock di New York, di quel capolavoro della letteratura di tutti i tempi. Il Piccolo Principe uscì il 6 aprile del 1943 in inglese e poco dopo in francese, ma Gallimard lo riportò in patria solo nel 1946, postumo e a guerra finita. Saint-Exupéry lo aveva già abbandonato e non seguì i suoi successi: il 13 aprile aveva salutato l’America per raggiungere le forze francesi in Algeria. Un viaggio da cui non fece mai ritorno. Si può dire che il suo romanzo filosofico, che traccia le linee eterne dell’esistenza umana, fosse nato molto prima, in quel «secondo letto» della camera della madre cui aveva libero accesso ogni figlio nel momento della malattia e febbre. Carattere esuberante, accentratore e votato a spettacolarizzare il quotidiano, Antoine adulto cominciò a convivere con un mini saltimbanco, un ragazzino nomade, avvolto in una sciarpa sempre al vento che poggiava in piedi direttamente nell’aria: lo disegnava spesso sui tovaglioli dei ristoranti. Fu così che l’editore Reynal, anzi sua moglie Elisabeth, lo incoraggiarono: «Scrivi un racconto per bambini con il tuo petit bonhomme, lo pubblichiamo per Natale». A quel progetto, Saint-Exupéry lavorò nell’estate e autunno del 1942 con una dedizione quasi pazza, stando sveglio intere notti, ingurgitando caffè nero e fumando un numero smodato di sigarette condite dal gin. Ogni tanto crollava sulla scrivania, ma poi si risvegliava per chiamare a ore impossibili qualche amico, che usava come cavia, sottoponendogli brani del manoscritto. Era assetato di pareri, posseduto dalla favola.

Disegnava incessantemente il bambino biondino ed esile abitante di altri mondi, forse ricordando suo fratello François, scomparso prematuramente e, nella realtà, prendendo spunto – per le pose e i comportamenti – dal figlio del filosofo Konnick. Pativa moltissimo la difficoltà di rappresentarlo come desiderava: i suoi acquerelli furono la causa del ritardo per l’uscita del libro, che non vide la luce per le feste natalizie. Anche la famosa pecora che il petit prince fissa sui fogli ha un antenato in carne ed ossa sulla terra: è il barboncino di Silvia Hamilton, la giovane giornalista newyorkese che fu l’ultima amante dell’autore, la stessa a cui regalò il manoscritto (oggi conservato alla Pierpont Morgan Library di New York, 132 pagine scritte fittissime, con molte cancellature, 35 solo illustrate).

Da allora, Il Piccolo Principe – in Italia «importato» fin dal 1949 da Bompiani – ha avuto una vita autonoma dal suo autore e ha conosciuto infinite ristampe e traduzioni (in almeno 257 lingue, è il libro più tradotto e letto dopo la Bibbia e il Corano): adottato come testo nelle scuole giapponesi per l’insegnamento del francese (qui, nel sol Levante, è stato realizzato anche un museo dedicato al personaggio), «parla» anche lappone, tuareg, khmer e toba, la lingua amerindiana del nord dell’Argentina.

La sua traduzione sul grande schermo, invece, nacque sotto non buoni auspici. Fu Orson Welles fra i primi ad interessarsi alla storia del principino solo tra gli asteroidi: ne preparò un adattamento che propose a Walt Disney per un film che mescolasse animazione e personaggi dal vivo, ma la collaborazione non andò in porto. Un colloquio di mezz’ora fra i due mise fine al sogno: i geni evidentemente lavorano in solitudine, difficile farli intendere. Andrà meglio forse al regista di Kung Fu Panda, Mark Osborne, che proporrà per il 2014 un film animato in 3D, targato Universal e con un cast vocale di tutto rispetto (Jeff Bridges, James Franco, Marion Cotillard, Benico Del Toro, Paul Giamatti).

Nel 2011, intanto, in vista della celebrazione dei settant’anni del Piccolo Principe, è stata tratta dal romanzo una serie televisiva in animazione e in 3D, 52 episodi con una potente coproduzione internazionale (Rai fiction, le emittenti pubbliche francese, svizzera, tedesca, il gruppo indiano Dq) e la distribuzione Sony Pictures. Realizzata dallo studio francese Method Animation – insieme alla succession Saint Exupéry d’Agay, garante del rispetto dell’opera e della memoria dell’autore – la serie ha potuto contare su una regia costata 18 milioni di euro, affidata a Pierre Alain Chartier, un team al lavoro di quattrocento persone, il coinvolgimento di scrittori come Daniel Pennac e disegnatori come Moebius.

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