È uscito da poco un libro prezioso dalla ricerca appassionata di Luisa Ricaldone, studiosa della letteratura, soprattutto di donne, dal ’700 a oggi, un invito alla lettura di testi noti e meno noti sulla fame descritta in tante declinazioni, materiali e simboliche. Il «viaggio letterario» è scandito da brevi capitoli dai titoli evocativi: Prigionie, Campi di «ravvedimento», Terre violate, Infanzie, Miserie, Epidemie, Rinunce, Metafore.

L’AUTRICE si era già occupata di alimentazione in Generi alimentari. Cibo, donne e nuovi immaginari, pubblicazione collettanea curata con Daniela Finocchi – ideatrice del concorso nazionale «Lingua madre» diretto alle donne straniere che scrivono in italiano – che, in questo Tra le pagine della fame. Un viaggio letterario (SEB27 pp. 200, euro 16), firma l’appendice «Pasto nudo: la fame narrata dalle donne migranti nelle antologie di Lingua Madre», cui si aggiunge il racconto Goiabas della brasiliana Claudiléia Lemes Dias.
Il cibo e la sua mancanza sono dunque autentiche fonti di ispirazione per Ricaldone, che nelle Riflessioni introduttive spiega come siano le memorie familiari e il proprio vissuto a spingerla a uno scavo profondo e quasi vorace nella letteratura mondiale degli ultimi due secoli alla ricerca delle tracce, talvolta flebili, del tema della fame.

GLI ANNI DELL’INFANZIA e della giovinezza furono segnati da letture come La capanna dello zio Tom e da incontri decisivi quale quello con Giuliana Tedeschi, insegnante liceale sopravvissuta alla Shoah che, per introdurre la prima lezione di storia, mostrò con semplicità il numero sul proprio braccio. Nell’alimentazione, citando Il pane selvaggio di Camporesi, si può nei secoli individuare anche la differenza di classe perseguita dai dominanti sugli umili, ritenuti biologicamente inferiori. Del resto, «cosa c’è di peggio che soffrire la fame e non poterla neppure dire?». Ma perché Ricaldone, per una denuncia così attuale, intreccia le voci di autori diversi nel tempo e nello spazio? È lei stessa a dichiararlo nella premessa: «la letteratura fa un lavoro migliore della verità», non permette di voltare lo sguardo, come di fronte alle migliaia di affamati invisibili delle nostre città, dunque è preferibile ricorrere al «forte valore pedagogico» della citazione, di cui fa un uso ampio e consapevole.
Il «viaggio» nel girone infernale della fame inizia con la storia della piccola Dacia Maraini che, prigioniera con la famiglia antifascista nel campo giapponese di Nagoya, fu costretta a vedere il padre scambiare un proprio dito con una capretta per salvare le tre figliolette da morte quasi certa; prosegue poi, tra le altre testimonianze, con Edith Bruck, la cui «tendenza all’ottimismo della sopravvivenza» deriva forse dalla fame insanabile subita ben prima dell’internamento.
È il carattere ricattatorio del cibo il filo conduttore delle pagine dedicate alle diverse forme di costrizione: attraverso autori come Primo Levi, Evgenija Ginzburg o Varlam Salamov, Ricaldone mostra che, se la dignità dell’uomo passa anche dall’alimentazione, la disumanità della fame cancella tutti i sentimenti che non siano l’urgenza animalesca di saziarsi.
Tra i romanzi del capitolo «Terre violate», colpisce il parallelo tra la famiglia del capolavoro di Steinbeck e le sofferenze dei migranti di oggi, sottoposti alla costante «tentazione di tornare sui propri passi vinta dalla necessità di andare avanti», vittime delle carestie e dell’ingordigia dei ricchi, «veri responsabili delle catastrofi».

LE PAGINE DEDICATE alle «Infanzie» si aprono con un riferimento alla scuola, proclamata prioritaria in tempi di emergenze, ma subito dopo nuovamente dimenticata dalla politica e dalla comunicazione: se nella rivisitazione di Cappuccetto Rosso di Emma Dante il cibo che sazia diventa «strumento di trasgressione e emancipazione», la fame atavica di Pinocchio è posta in parallelo con i testi di Bruno Maida su infanzia e guerre nel Novecento, che descrivono la catena fame-miseria-guerra-bambini. È negli ultimi capitoli, a partire da «Miserie», che raccontare la fame diventa un atto sovversivo, siano i racconti di Paola Masino sotto il regime fascista, il romanzo di Mercè Rodoreda nella Catalogna della guerra civile spagnola o i diari scritti nella cruda realtà delle favelas da Carolina Maria de Jesus. Piccole luci assunte da Ricaldone a «metafora della potenza femminile».
Sovversiva è anche la sofferenza del corpo digiunante di Caterina da Siena, Amélie Nothomb o Michela Marzano. Così il libro si chiude con una speranza: la fame può essere vista come un percorso di formazione per andare oltre il presente, liberare se stessi oppressi e, nel contempo – ci insegna il pedagogista Paulo Freire –, liberare anche gli oppressori.